giovedì, dicembre 20

Enterlude exitlude




« El, El, El, aspetta aspetta aspettaaaa... occristo, occristo …»
William si piega, i capelli lunghi per poco non spazzano il pavimento coperto di cocci, lattine collassate, accendini smarriti, chiazze annacquate, impronte di suole, mozziconi accartocciati. Solleva un braccio, a contare il tempo della ripresa; come in un incontro di boxe. Un incontro di boxe disputato in una piscina di rum. Eleazar china il capo, appunta le pupille a spillo sulle spalle dell'amico. Una mano poggiata al palco, il corpo sbilanciato in modo eccessivo, il sorriso sbilanciato in modo eccessivo, gli occhi sornioni e sciolti dall'alcol (eccessivo). 
«Andiamo... andiamo... sei... »
Riflette, cerca il termine, caricando il cervello con movimenti circolari e strascicati della sinistra in sospensione, elegante, abbracciata ad un bicchiere di plastica « … teatrale e... pavido... coniglio » Conclude, con l'espressione serafica di chi sopravvive ad ostici sillogismi. Un frullare del capo, per scansare dalla fronte i ciuffi arruffati.
William addenta ossigeno. Raddrizza la schiena. Barcolla. La mente sciaborda nella scatola cranica, ed il suo portatore non ha altre armi, per bloccarla, che uno sbatacchiare precipitoso di palpebre.

domenica, dicembre 2

Ashes




Un giorno voglio raccontare a mia figlia di quando sua madre uccise cinquanta persone in un'operazione terroristica, cinquanta persone tra cui dieci donne e tre bambini.

Un giorno voglio raccontare a mia figlia di quando potevo salvare cinquanta persone da un massacro annunciato con un messaggio spedito in tempo, dieci parole, dieci minuti e non l'ho fatto.

Voglio raccontarle tutto questo.
E spiegarle perché.


giovedì, novembre 29

Awake my soul




« Elia? »
« ... Eleazar?! »
« Dove sei? »
« Sa'ar... come... »
« Dove sei, rispondi »
« Ah... eh...»
« Rispondi »
« Sono...Sono anni che non... »
« (il tono aggressivo, violento ed urgente) Cristo, Elia, ti ho fatto una domanda, rispondi alla domanda »
« (silenzio attonito, arreso) ...A casa... Sono a casa »
« (silenzio) D'accordo »
« ... »
« ... »
« stai... stai bene? »

sabato, novembre 24

Working class heroes


[// premessa off: siccome siamo fuori di testa, non ci piacciono le persone vere, ma amiamo tanto i nostri png, abbiamo scritto questo delirio a quattro mani. Speriamo vi faccia ridere la metà di quanto ha fatto ridere noi. Quinnecetera & Nasazar]



Corona, 8 agosto 2499

La casa di Alexandra Keynard è un'ode al buon gusto e alla stravaganza. È possibile ravvisarci dentro quadri di artisti (sempre emergenti ed estremamente contemporanei), il design è pulito e moderno. Non c'è traccia di 'servitù'. In compenso la grande sala in cui è stato approntato il buffet è adiacente al patio dell'ingresso e costituita in larga parte da vetrate. Ci sono già diversi invitati. Tutte facce note e rinomate, facce rilevanti. Alexandra è tornata da Xinhion per le vacanze estive, come suo solito, e come suo solito ha approntato un incontro con inviti selezionati (essenzialmente selezionati dal fratello Seymour, giacché per lei si tratta solo di un'occasione per imbarazzare e stuzzicare l'aristocrazia prossima alla famiglia, più che un convito tra amici. Amici, poi).
Seymour Keynard parla con Ritter padre; Ritter padre rigorosamente in maniche di camicia e capello casuale. Selenie Keynard, la madre di Will, sistema il tavolo in silenzio, con gentilezza, elargendo sorrisi piuttosto silenziosi. Accanto a lei, William. Chioma riccia, bionda, occhi celesti, faccia da cherubino, t-shirt e jeans, sta entusiasticamente spiegando qualcosa alla mamma, con l'usuale parlantina partecipe.
Rachel Ritter interloquisce da lontano con gente a caso, rigorosamente in rosso; ostenta sfacciata l'espressione di qualcuno che sì, non si sta divertendo. Non si sta divertendo da una vita intera.
A vederla, nessuno potrebbe immaginare l'aureola emicranica che stringe le tempie di Alana Collins.
E' come al solito impeccabile, bellissima, elegante nell'abito nero. Sicura di sé, dispensa intorno sorrisi da squalo, pericolosi e affascinanti. Si trascina dietro un figlio e un marito riluttanti, uno più dell'altro.
Byron, almeno, è adulto. E per amore di sua moglie si immerge con garbo  in quella società alla quale non ha mai sentito di appartenere.

domenica, novembre 11

Dark Rift



"And when you gaze long into an abyss the abyss also gazes into you"





Non è lo stesso uomo.
Non è lo stesso uomo che su Hera vegliava spalla a spalla con Bowie in ode all'impossibile, dell'inafferrabile, in nome di un senso senza nome: la sorpresa, la potenzialità dell'esistenza. Nella merda, nel fango, nella cenere. Perché bisogna, bisogna che resti qualcosa, qualcuno di insindacabile. Un confine su cui serrare i denti.
 Non è lo stesso uomo che irrompe nella clinica in rovina di Harlem, tra mozziconi di cemento e maniere contorte, tra antibiotici dimenticati, per salvare un mazzo di disperati senza speranza. Contro i proiettili, contro i sintomi della peste polmonare, contro l'astinenza. Contro la logica. Contro la casistica.  Contro la storia.
Non è lo stesso uomo che ha operato una donna con l' ago da trasfusione allacciato al polso sinistro e il bisturi saldo nella destra. Non lo stesso che si fa legare ad una sedia, stremato, per resistere ad altre sei ore di strenuo intervento; per orgoglio, per caparbietà, per scommessa e, forse, per giustizia.
Non è lo stesso uomo, incapace di arrendersi di fronte ad un battito cardiaco in calando, una febbre in crescendo, una ferita che irride la carne, fine e disperazione. Incapace di siglare una fine senza sfinirsi nell'impresa di fregarla.
Non è lo stesso uomo, con un carattere del cazzo, la faccia da stronzo; ed il miracolo in mano. Il miracolo in mano, in mezzo al fango di Blackrock. Non è lo stesso uomo che si contendeva con la morte centinaia di soldati, uno ad uno, in un bagno di sangue, a schiena piegata, a testa alta.

giovedì, agosto 30

Wind in the wires (3)


Rockfort, Hera, tre giorni dall'arrivo. 
La luce sul corpo della donna, quella distesa prona sul tavolo, è instabile, traballante. La donna che sorregge la lanterna trema, premendo una mano sulle labbra. Un rivolo di sangue ha dipinto l'orlo al pianale in metallo, decorato la gamba, ricamato il pavimento. Una pozza di sangue imbratta il lenzuolo sotto lo stomaco, i vestiti opachi in cui il rosso, per contrasto, scalpita drammaticamente. È notte, fuori, quando Ritter carica l'ingresso dell'infermeria, scortato da una sentinella equipaggiata di fucile; e d'una vistosa freddezza vendicativa, sotto il cappello. 
La donna con la lanterna sussulta, due infermieri improvvisati lo fissano, le orbite disertate dall'emozione, l'abitudine ha messo in fuga qualsiasi forma di tensione o stupore. 
La bambina, in un angolo, è stata sistemata sulla 'scrivania' di Bowie, e Bowie le sta fermando una angosciante emorragia alla gamba sinistra. La bambina piange, divorandosi la bocca, le gengive, annaspando nelle lacrime, intrigata nei capelli intrigati, invocando la madre. Prima di qualsiasi parola o spiegazione, Ritter arrotola uno straccio pulito, riceve dalle mani di Max, che non lo sta guardando, una bottiglia di cloroformio, senza guardarlo. La pezza è sotto il viso della paziente, le dita corrono risolute a lacerare i vestiti, a sbucciare un frutto troppo maturo, fradicio. Porge a Bowie il cutter, ne incrocia le pupille. Passa la lingua tra le labbra serrate, ingoia, presenta il conto delle proprie pulsazioni regolari, sicure. Max annuisce, non una parola, recide un bendaggio alla bambina allunga il palmo, scattante, verso un ripiano e trascina dietro di sé una scatola di antibiotici generici. Dalla porta entrano altri tre uomini feriti, nessuno dei tre in modo troppo grave, tutti e tre abbastanza da incomodare gli esperti. Per un tacito ordine, non proferito, Bowie li prende tutti quanti in consegna, loro e i loro proiettili. Eleazar lascia scorrere le dita sul corpo della donna, lo libera del sangue in eccesso, calcola danni, ordina percentuali; indice e e medio alla carotide, l'orecchio tra le scapole, un foro caldo a pochi centimetri. L'assenza di energia elettrica complica le operazioni ad entrambi i medici, ma nessuno di loro pare davvero in difficoltà, nonostante tutto, nonostante la penuria e i mezzi obsoleti. Le garze sono tagliate al centimetro, l'anestetico tenuto al ribasso, ove si può si condivide il materiale o si utilizzano oggetti impropri (coltelli da caccia, pinze da griglia, tra i tanti).

venerdì, agosto 24

Wind in the wires (2)


Rockfort, Hera, tre ore dall'arrivo.

Percorre la rampa di discesa, il peso del corpo ed il peso dell'invisibile percuotono la passerella attraverso le suole degli anfibi sdruciti. Un materiale impalpabile, intangibile, pressante come la sostanza oscura che compone silenziosamente gli universi. Come i ricordi, i dubbi, l'intelaiatura segreta di quello che siamo. La camicia sbracciata palpita sotto una fiacca sferzata di vento polveroso, lo scheletro scintillante di Rockfort giace simile ad un avanzo di fronte ai suoi occhi affinati dalla stanchezza e dalla luce scialba del pomeriggio. Rabbrividisce, la temperatura è più bassa della media. Più bassa di quella impostata per la stiva carico della Laetitia. Un ghigno amaro saluta il medesimo errore compiuto reiterate volte, anche nel passato. Solleva il mento, la coscienza inciampa sull'orizzonte offuscato. Da qui, salvo le ciminiere abbattute ed una massa modesta di baracche, non si intravede nient'altro. La nebbia avanza con pudore. Un pudore che in guerra fu spietatezza o benedizione a momenti alterni. Avanzando, la tracolla a segargli la spalla magra, si inoltra in un profumo familiare: ferraglia al macero, cenere, terra battuta. Rivolge il naso al cielo, nella carrellata d'osservazione. Un grigio sgombro, uniforme, variegato di nubi basse; tre luci rosse, disposte ai vertici d'un triangolo, in sospensione tra i nembi: certi giorni era tutto quello che avevi per intuire un Raptor a volo radente. Tre luci: male. I soldati avevano preso a mimarle con le dita, per schernire la paura, richiamando col gesto qualcosa di molto più piacevole da rammentare.

mercoledì, agosto 22

Wind in the wires (1)



Luglio, 2514 (nave cargo Laetitia)

Andato. Me ne sono andato. 
Ho lasciato il cuore in mano alla vita ed i mostri hanno fatto quello che sanno fare meglio: infilarsi al suo posto, nel petto, accomodandosi nella cattività vellutata della gabbia toracica. 
Me ne sono andato. Il carcere. McCorvin. La settimana trascorsa a meno d'un metro da Eir, sempre. Le minacce di mio padre. La presenza di mia madre. Le responsabilità. Le promesse. Il matrimonio. 
Una volta, dopo un delirio allucinatorio, è stato il freddo della weyland tra le linee del palmo a strattonare la coscienza, a trascinarla a se stessa. E l'odore chimico di Xentio. Non ricordo il grilletto aggredito, non ricordo ragioni. Mi sono alzato dal pavimento seguendo una striscia di sangue annodata alla mano destra col doppio filo d'una ferita stretta, fresca. L'appartamento, un caos violento. Ho sparato, nella determinazione cinica, istintiva, del delirio. Ho sparato dentro un incubo, aggredendo il mondo reale, là fuori. Progressivamente le visioni si sono mescolate alle angosce notturne, le mura della stanza hanno iniziato a vomitare palcoscenici macabri per le pantomime emotive del mio cervello disfatto. 
So perché. La dottoressa Caprow lo pronosticò con disperata esattezza; più ti lasci urtare dall'esistenza, più ti esponi ad essa, più ti disarmi contro il grande nemico, quello in sospeso. Il sistema era ignorare le domande, sigillare i fantasmi nell'armadio, schiacciando loro le dita tra le ante sino a spezzarle. I fantasmi pretesero l'anima in cambio della pace. Il patto: mi lasciarono vivere, a condizione che vivessi senza vita. Ho tradito l'accordo, spudoratamente. Sono sempre stato un buon bugiardo ed un discreto traditore.

martedì, giugno 26

Barricade

scritto e archiviato sull'holodeck
[ Capital City - Magazzino ]



"Aggiro l'ostacolo d'una roccia finché non ho abbastanza polvere per farla saltare in aria. Aggiro l'ostacolo delle leggi d'un popolo finché non ho raccolto l'energia sufficiente per rovesciarle"


Lancaster e la signorina Alcot continuano, imperterriti, ad attribuire il nostro rapimento a ragioni ideologiche. Mi domando perchè la gente debba sempre tirare sulla piazza l'utopico, il cerebrale, perchè debba sempre nascondersi tra le sottane dell'intangibile. 
Soldi, ecco tutto. 
Ne ho bisogno, per diverse questioni; ne abbiamo bisogno, con Neville. 
Il motivo per cui ribadisco certi punti salienti del mio ragionamento (trapianti a pagamento, protesi concesse su parcella, brevetti mancati, armi distruttive, eccetera eccetera) è eminentemente logico e razionale. Non sopporto l'ipocrisia del genere umano. Ti guardano dall'alto della loro pedana morale per disadattati sociali, brandendo lo stendardo dell'innocenza, sentenziando in merito alla mancanza di correttezza, giudicando il tuo modo di guadagnare denaro, quando poi le fondamenta del piedistallo su cui si ergono a giudici immacolati sono costruite sull'abuso, sullo sfruttamento scoperto, sui favoritismi di classe.  Il che è lecito, plausibile, non tocca alcuna corda interiore... o quasi nessuna, almeno. 
Ma non venire, dopo, con le mani lorde di sangue trasparente, a sindacare su di me.  
Detesto la violenza alla verità. Alla verità in quanto evidenza.  

domenica, giugno 24

An animal with clothes on

scritto su fogli sparsi, a tratti macchiati di sangue e caffè.
[Horyzon, Capital City - appartamento]



Non capita mai che io avverta lo schifo di scrivere.
Ecco, adesso sì. Lo schifo di scrivere pagine pagine tra il deck e la carta, tra il plasma e l'inchiostro. Tra la verità e la versione adulterata della verità, la versione cadetta, la versione bastarda.
Gli incubi mi colano ancora giù dalle orecchie, sino alle spalle, alle braccia, alla dita, mentre mi godo questo risveglio a freddo della coscienza, fra corpo e pavimento.
Il sonno infestato di immagini, di pelle, di carne, divise, metallo, fiamme, acciaio, inferno; immagini di fischi neri, grida remote, di polvere arida. La polvere, ovunque. Nella camera asettica ne avverto ancora il sapore, mi esce dal naso, dalla gola; me la porto dentro. Sono una scarpa piena di sabbia.
La sabbia di Blackrock, d'un tratto, mi sommerge.


Sudore pallido ed una frequenza cardiaca arroccata attorno ai 170. Il fiatone, da fermo.
Forse quando sogno non respiro. Forse corro.
Probabilmente, quando sogno, scappo.

lunedì, giugno 11

We won't run


I was 27 years old the first time I died. I remember there was white everywhere. There was war and I felt alive, but really I was dead. Sometimes I think we live through things only to be able to say that it happened. That it wasn't to someone else, it was to me.  
Sometimes we live to beat the odds.


scritto su alcuni fogli ingialliti, calligrafia piuttosto ordinata
[ stanza, Maracay, Richleaf ]

Nessun armistizio risolverà mai una guerra. Una guerra si nutre di radici che l'armistizio non intacca. Un armistizio miete la pianta, sino a raderla al suolo, sino a scoprire la terra nuda; un armistizio falcia gli steli, i tronchi, al loro grado zero. Ma il tronco spezzato, lo stelo reciso sono vivi, violentemente vivi oltre la crosta terrestre. Quel vuoto civile, diserbato, di cui ci ubriachiamo, è un palliativo alle nostre paure, alla nostra paura della foresta. Lentamente il vuoto inizia a germogliare, di nuovo, dai monconi. E tutto ciò che abbiamo costruito sull'illusione della calma viene divorato dall'edera, dal verde selvaggio; ogni muro schiantato, il cemento stritolato.
L'armistizio è la potatura drastica di una messe incontrollabile, che rende agibile lo spazio per qualche anno, finché la natura smaschera la beffa. Se non infili le mani nel fango, se non strazi coi denti le radici, la guerra non giunge mai all'epilogo. La guerra produce fiori vistosi, in superficie e l'uomo si perda a distruggerne l'evidenza scintillante, dimenticando il sottosuolo.
Il sottosuolo.

mercoledì, maggio 30

Set fire to the rain



-Ho intenzione di sposarla, Ritter
William sta in piedi, la schiena appoggiata alla balaustra del terrazzo, alle sue spalle il buio incombente, straziato dalle meravigliose luci di Capital City. Sono entrambi sul tetto della palazzina in cui abitano, da anni, il tetto sotto al quale si sono incrociate e fuse assieme, specchiate le une nelle altre, tutte le loro esperienze. Fino ad adesso.
Will è accartocciato nel proprio maglione rosso, quello che lo vestirà costantemente anche nei ricordi. Nelle allucinazioni. Quello delle cose importanti. Ha tagliato i capelli, i bagliori remoti delle insegne, dei lampioni, dei neon covati negli edifici rimbalzano tra le ciocche precise, nette. Prepararsi alla guerra, si comincia dalle piccole cose. La barba bionda gli incornicia il mento, si bagna del riflesso della sigaretta accesa. Gli occhi celesti, solitamente enormi, sono acquattati in un'insonnia nervosa, aggressiva e minacciata. Fissano il vuoto, le antenne in metallo, senza vederle davvero.
Eleazar è lì accanto. In lui, l'insonnia è sfacciata e si siede al centro del volto con languida noncuranza, con disperata abitudine. I capelli paiono piuttosto lunghi, piuttosto reticenti alla quiete, agitati dalla brezza notturna. Sta fumando. La camicia bianca non basta, evidentemente, a schermarlo dai respiri pungenti di Horyzon. Non risponde. Lo sguardo è una linea implacabile, l'ennesima, tra le altre del volto angoloso, glabro.
Sembrano quello che sono: due amici reticenti a dirsi addio, che recriminano fino all'esasperazione, che recriminano sino a potersi concedere il lusso di abbandonarsi senza salutare.

lunedì, maggio 21

Make a deal with God




Rachel Cavendish percorre il corridoio. Il corridoio le scorre sotto ai piedi magri, mentre la pelle d'alabastro bacia il mosaico a volute leggere. Le vetrate in cristallo la immergono in un'impareggiabile acquario di luce. Vi passa le dita, lasciandole indietro a lambire le trasparenze intrise di sole; la testa ruota, esponendo il collo ai passi futuri, abbandonando gli occhi grigi sulla scia invisibile della mano, dietro di lei. Fragili vene azzurre le cingono i polsi, le caviglie, come screziature iniettate in una coppa di marmo. Fuori, il verde trionfale, la pelliccia sontuosa adagiata su Corona. La tenuta dei Ritter si estende troppo oltre per apprezzarne il confine. 
Assapora l'ondeggiare molle del vestito lungo, sulle gambe magre, sul ventre scavato, sul petto nudo. Una tunica semplice, d'un amaranto intenso, che ne esaspera la figura esile coronata di minuti ricci dorati. La sinistra culla un calice di vino. L'ennesimo. 
Il brivido della fame protratta, dell'alcol, della massacrante quotidianità violata. 
Rachel si muove a rallentatore, diluendosi nei gesti, diluendosi nell'aria fresca del patio. 
Il grande salone a volta la accoglie come un'enorme nicchia, una caverna artificiale. L'ombra la avvolge, spezzando i raggi che bruciano le linee del viso, le volute dei capelli, le creste della stoffa rossa. Un profumo di anemone e magnolia ne tradisce lo spirito. 

martedì, maggio 15

Gravedigging

scritto e archiviato nella memoria dell'holodeck
[trasporto per Richleaf]



Il noto diviene abisso quanto l'ignoto e questi due precipizi, uno dove stanno le nostre colpe, l'altro dove sta la nostra attesa, confondono le loro irradiazioni. 


Evidentemente sto sbagliando qualcosa.
In senso esistenziale ed onnicomprensivo. Probabilmente dipende dalla mia inettitudine alla relazione, alla mia incoscienza priva di freni. Il mio ego amministra me ed il mondo in maniera diversa. Con Ritter, il cervello erige labirinti irrisolvibili tra le insenature dello spirito; se si tratta del mondo invece la mente si muove spianando trionfali autostrade.
Contro me stesso, vesto i panni del cinico sofista, del torero che dissangua la lotta e cela la spada. Con l'esterno indosso l'armatura del soldato, del cavaliere di torneo la cui ragione esplode nel muscolo animale.
Estenuare. Giustiziare.
Non sono un diplomatico. Traccio la retta da B a C con tutta l'intenzione di schiantare ostacoli, pur di non inventare curve. La gente s'attende altro. La gente sbaglia. Brillare in pianificazione non fa di me uno stratega; la tigre migliore a saltare nel cerchio di fuoco non è fiera del proprio primato.
Detesto le procedure tortuose.
I segreti imbastiti per viltà borghese.
La soluzione ad un problema non è quasi mai complessa. Complesso è un termine socialmente accettabile, ipocrita, per definire un dilemma la cui soluzione prevede procedure scomode o reputate dolorose.

giovedì, maggio 10

Where the sea meets the sun

scritto su fogli sfusi, in carie occasioni. alcuni fogli sono strappati. pesanti cancellature
[Greenfield]



The bends in your brain
 and your elaborate pain
makes me tired



Comiciamo

È viva. Viva, sta bene. Più o meno. Come al solito, aveva ragione qualcun altro. Non che mi interessino, la ragione o il torto. Smettere di sperare, è la prima delle mie difese, la meno sofisticata. Quanto male possa fare, una speranza disattesa sul lungo periodo... Spogliarla piano di quella tuta assurda, abbracciarla. Non piangevo da vent'anni. Strana sensazione. Solo in quel momento, mi sono reso davvero conto di quanto mi sia messo in gioco. Il momento dell'estrema debolezza, dell'estrema consegna di sé. Le lacrime sono un prezzo ed un risarcimento per la corazza esaurita, scaduta, che Eir mi sfila come io le ho sfilato l'armatura spaziale. Protezioni utili a sopravvivere nel vuoto, senza ossigeno, senza calore; adesso non servono più. Qui, l'uno con l'altra.
Oramai sono rassegnato ai segreti, alle reticenze, ai colpi di testa. Le ho estratto dalla schiena cinque schegge di granata, dalle gambe sei. Cerco il rischio per attitudine mentale, ma quando la riguarda perde qualsiasi fascino. Qualsiasi seduzione. Mi basta tenerla stretta qualche ora la notte, contarle il battito in petto, passarle una mano sulla pelle, per domandarmi quanto resisterà, ancora; se continua a bere così, se continua a mettersi in pericolo, a trascurarsi, a distruggersi per le cose che ama (me compreso). Vivere nel presente, solo il presente, è un imperativo a cui mi sottopongo in modo stringente, da quando la conosco. Non posso rischiare di promettere sapendo non poter mantenere. Lei pure, lei pretende di vivere solo il presente ma lo vedo, lo vedo che le sta stretto. Dopo tutto le rivolte non si intraprendono per il presente. E lei è una animale da rivoluzione.

mercoledì, maggio 2

Slow show

scritto disordinatamente su svariati fogli di carta, senza soluzione di continuità, riempiendo in modo casuale gli spazi bianchi.
[Safeport - stanza]



La schiena brucia, dopo giorni. Assurdo. Mi porto addosso un marchio vivo, sotto le sue unghie la verità. La verità che c'era la volontà, la vita, oltre. Dentro. La verità di un mondo improvvisamente, terribilmente possibile, a pochi passi da noi. Allungare la mano, afferrarlo, rinunciare al resto, il resto inutile. L'inutile resto, che adesso rimane in tutta la propria mostruosa banalità; e mi ingoia. Il dolore, il dolore sulla pelle, una vendetta per le parole che non le ho saputo dire, per le parole che non le ho detto. Il dolore a filari, tra le scapole, il percorso di quelle dita, se chiudo gli occhi dentro la morfina le avverto attorno alla testa, sul petto, sulla bocca. E la pelle si infiamma, lungo la colonna vertebrale, lungo l'immagine del suo corpo, lungo la rotta per un posto migliore, la rotta spezzata dalla voce roca di Jack (era Jack?), 'Non c'è traccia di Sterling'. E questi graffi, sono un marchio, conferiscono fisicità al semplice e terribile sentimento di perdita, danno una carne alla nostalgia squilibrata in cui mi dibatto senza muovermi. 

martedì, maggio 1

From her to eternity


scritto su vari fogli sparsi, senza collocazione né data


Il 'Verse, di recente, vomita misteri di continuo. Letteralmente.
I Grayskins, i draghi. Credo di stimolare le confidenze delle persone. È un' incognita, per me, come accada. Seriamente. Probabilmente perché sono un tipo silenzioso e poco attaccato alle pubbliche relazioni.
Lydia mi stupisce ogni volta. Si fida a tal punto e mi domando cosa ho combinato per meritarlo. Oltre ubriacarla, ubriacarmi e ricordarle i periodi più brutti dell'esistenza. Ci incontriamo così poco. Serve che si ustioni o si guadagni una pallottola. Poco è comunque qualcosa. È comunque meglio di niente.

Donna Winter ed io non siamo stati mai in così stretti rapporti lavorativi come adesso che s'è affrancata da Hall Point. La aiuteremo col trasloco, noi della Monkey. In oltre ha deciso di coinvolgermi in quel progetto spettacolare di organizzazione culturale. Se ho una debolezza scoperta, sono i libri. Sino alla cleptomania. Ovviamente sarà un segreto. Segreto, ancora. Vuole donare un libro di Wilde ad una biblioteca/museo di Corona. Sono perplesso, ma ammetto di pormi in modo parziale di fronte alle mie origini. La Parker Liang Library costituisce il non plus ultra. Istituita una cinquantina d'anni fa, dalla fondazione Rebbecca Parker Liang, ospita centinaia di opere di pregio, per lo più dal 2100 in poi. In poche parole: una fetta cospicua dell'arte del 'Verse colonizzato. Suppongo sia una delle mecenate più attive della nostra storia: esistono diversi Parker Liang Museum oltre quello di Corona. New London, Berishan, Elèria, Xhinion, Horyzon e persino Koroleva. Il museo di Koroleva sarebbe da vedere, prima o poi, se non altro per l'imbarazzante quantità di visionisti russi che raccoglie. Sembra assurdo pensare come un centinaio d'anni fa Koroleva raccogliesse l'avanguardia artistica del sistema multisolare.
Non vado ad una mostra da epoche immemori. Dovrei rimediare.

venerdì, aprile 27

Racing like a pro

scritto e archiviato sull'holodeck
[ Hall Point - Monolocale ]



Ho fatto stampare due copie delle fotografie.
Quelle per Roona, le ho consegnate regolarmente nella cartellina nera, precise, impilate, tra l'odore fresco di inchiostro sintetico. Le mie giacciono sparpagliate sul tavolo dell'appartamento, fra le bottiglie vuote, un paio di fialette asciutte, polvere bianca e tabacco sbriciolato.
Le studio, una ad una; specialmente i ritratti.
Evito di guardare quella dell'ospedale. Tutte, ma non quella dell'ospedale.
M'hanno buttato fuori senza che avessi il tempo di reperire più prove (ovvio). Deve essere pratica comune, il commercio d'organi, quando sei considerato alla stregua d'oggetto da macello od esposizione.
Non mi indigno.
Indignarsi è così sciocco. Loro non si ritengono uniti dalla mancanza di libertà; gli schiavi di Clackline non percepiscono se stessi come un gruppo accomunato dall'oppressione e dalla privazione di dignità. Anzi. Tendono a rimarcare le differenze che li scindono in base a istruzione, censo, mansione: camerieri, attendenti, ballerine s'avvertono maggiormente prossimi ai loro padroni piuttosto che ai minatori, ai raccoglitori, ai braccianti agricoli. A loro volta, i manovali, quelli nati per lo sforzo fisico, non posseggono un'istruzione di base; a malapena riescono ad articolare quattro parole in inglese decente. Puntano a sopravvivere: la lotta per i diritti è ben lontana, quando combatti giornalmente in vista del pane e della perseveranza biologica.

martedì, aprile 24

Fake empire

scritto e archiviato nella memoria dell'holodeck
[New London - camera d'albergo]



Alla fine non sono andato al concerto, nonostante le ferie.
La verità: temevo di incontrare mia madre e mio padre. Ostentano sempre, specialmente Rachele, una certa passione posticcia per la musica. Salvo poi trovare da ridire su qualunque cosa, come qualsivoglia blasonato stronzo che si rispetti, cosciente di elargire pareri determinanti per posizione sociale. 
Io, che paradossalmente amo in sincerità certe cose, mi son dovuto tirare indietro per amore della pace mentale.
Impossibile tollerare il quadretto edificante di quell'ignorante di mio fratello a braccetto del nulla ornato di pizzo (sua moglie: non rammento nemmeno il nome): per Elia, fracassare due pentole o ascoltare Bach apre i medesimi scenari spirituali. Ma scaldare la poltrona ai concerti, sedersi sulle mondanità per rimarcarne il possesso, è pubblicamente obbligato, se sei un Ritter. 

Ho regalato il biglietto in prima fila a Neville; avrà tenuto alto l'onore della nostra nave presso il popolo femminile sopraggiunto all'esibizione.
Ming Li è davvero notevole; lo so. 
Donna Winter mi ha promesso che potrò strimpellare quel pianoforte mitologico. Spero, quanto meno, di non sembrare un maiale seduto su un trono d'oro, qualora capitasse (e farò in modo che capiti). 

sabato, aprile 21

You've used to be such a lion

fogli sparsi, scritti in un momento imprecisato
[Hall Point - Monolocale]



Situazione tipo: Eir parte per Safeport.
Se ne è andata da poco, a svenarsi con Presta che dimentica, con la sua casa piena di ricordi, con tutti i dubbi che le infilo in testa ogni giorno.
Non mi sono alzato dal letto per salutarla, stavolta no. Ho lasciato che si chinasse lei, che si congedasse in ultimo col primo bacio senza denti della nottata.
È sera. Di nuovo.
Montezuma (composto e stravaccato) mi scruta perplesso, mentre fatico a trovare una posizione al riparo dal dolore fisico, sciolto fra le lenzuola, con l'holodeck a portata di dita: Eir m'ha ridotto ad uno straccio, stavolta. Fisicamente. Se conto i graffi dentro la pelle, sul petto, sui fianchi, posso andare narrando da domani d'esser scivolato in una gabbia di pantere; o qualcosa di simile. Mi crederebbero, basterebbe sbottonare la camicia. Non oso pensare alla schiena; per fortuna non la vedo. Per sfortuna, la sento, però. La sento tutta.
Passo e ripasso la lingua sull'angolo della bocca, aperto in uno spacco dal sapore tutto particolare.
Ho messo su un po' di musica.
Non ci cascavo da tempo, nella trappola delle note. Troppa atmosfera pericolosa. Ho frugato negli scatoloni ancora intatti (intatti per dare all'esistenza il rassicurante senso di provvisorio, lo sradicamento che mi salva illusoriamente dalla conta delle responsabilità).
C'era un disco rigido (uno dei tanti) stipato di note antiche, d'un remoto passato prima della guerra, della tragedia. La stanza è vuota, a parte il mio respiro affannato, le fusa di Montezuma, il fumo rumoroso della sigaretta. Temo che compaia Will, da un attimo all'altro. Ieri è accaduto e domani accadrà, credo. Fino alla fine, accadrà.
Ma stasera no, dio no. Stasera no.

lunedì, aprile 16

The science of your days is laid bare


La tazza del caffé stiracchia fumo nell'aria al neon della cabina.
Ritter è sdraiato sul letto, la sigaretta piantata in bocca come l'ago di una meridiana. Fuori la nave, c'è Safeport. Safeport con i suoi cieli al sangue.
La testa è una matrioska, dentro fusoliere in metallo lucido. Dentro la stanza. Fra uno strato e l'altro si muovono differenti gradi di realtà, tempi diversi, cose visibili ed invisibili. Chiudere gli occhi non spezza il cerchio alla testa. Un cerchio da cui si sporgono, come dalla volta affrescata d'una cattedrale, le assurdità della sua vita in forma umana. Lo indicano, gli sorridono. Il cuore batacchia in creste viscide, le trascina a galla.
L'illusione del controllo, svanita. Pezzo a pezzo l'armatura si accascia a terra in un rumore graffiante, che ferisce le tempie.È notte? È giorno? Ha senso parlarne? Eleazar si strofina il volto, su cui ombre dense cercano riparo dalla luce rarefatta del locale. Il silenzio spazza attorno ai suoi pensieri, negli angoli, con metodo. Allunga una mano, si procura il caffé, ne ingoia un sorso profondo, il calore ruscella fra gli interstizi dei tendini, delle fibre muscolari. I respiri inarcano le costole, l'addome, sino al ventre scandito di ossa.
La stanza vuota pullula di energie irrequiete.

domenica, aprile 8

You and whose army

scritto su un paio di fogli sfusi, con la stessa penna ma calligrafia non sempre uniforme. il luogo è incerto e probabilmente ogni parte è stata redatta in posti differenti.


Abbiamo passato la notte assieme, al ranch.
Non la aspettavo; o meglio, la aspettavo ma non credevo sarebbe arrivata.
Si è insinuata fra me ed il mio stabile nulla senza chiedere il permesso. Il problema: Eir porta a galla sensazioni sommerse nelle fosse della mia incoscienza consapevole, sensazioni, desideri che non posso permettermi di desiderare, perché funzionanti solo su lungo periodo.
Io non ho lunghi periodi di fronte.
Lei lo ignora. Si ripropone di non affrontare la realtà.
E mi serve l'entusiasmo, il futuro possibile, in modo crudele e candido, aprendomi i denti coi denti e lasciando che l'amore sconsiderato mi scivoli in bocca, nel petto, fino al basso ventre.
A volte la odio.
Un odio esasperato e possessivo.
Eir rende insopportabile l'esistenza rassegnata e leggera a cui m'ero abituato. Anzi, a cui m'ero addestrato con cura. Non è facile, c'è di mezzo la clinica. Non sono mai stato un entusiasta. Ma dover fronteggiare lo squilibrio mentale m'ha armato di un'indifferenza corazzata. Un disinteresse tagliente e incrollabile nei confronti del domani. Niente deve entrare, perché tutto, tutto, può provocare un immane effetto farfalla e spiantare il sistema difensivo alle radici.
Oramai le mura grondano falle, lo so.
Ha ficcato le dita dove ha trovato una crepa e m'ha graffiato la schiena fino a che non l'ha schiusa a sufficienza per infilarsi oltre la barriera.
Lei ed il suo esercito.
Il suo esercito di cose per cui vale la pena non morire.

martedì, aprile 3

My god damned Damaris


scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck
[ Scarlet - cabina ]

A breve torno a lavoro. 
Un bene: impegniamo la testa.
Devo gestire diversi progetti per hall Point.
Gli upgrades dell'infermeria, ad esempio.
Ho proposto a miss Winter il progetto sulla psichiatria, sulla consulenza psicologica. Pare averlo accolto in maniera positiva. Foster ed io ci stupiamo sinceramente del numero imbarazzante di spiantati che ci capitano tra i piedi. Non è raro che mi porti la weyland in studio. Foster è meno sospettoso nei confronti dell'umana natura.
Tra un caffè e l'altro, mi ha interrogato se avessi la testa per un lavoro simile: gli ho mentito (magistralmente), dicendo di sì. Le competenze accademiche non mancano; il mio internamento in clinica costituirebbe un handicap sufficiente, però.
Di recente ho sfogliato il diario che la dottoressa Kaprow mi impose di stendere su Elerìa.
Non l'avevo mai fatto, negli anni successivi alla dimisisone.
L'assenza di Eir mi porta a compiere gesti inconsulti.
O forse è la sua presenza, non lo so, a rendere tutto inconsulto.
Già.
Rileggermi non è stato semplice.
Ho avuto lo stomaco di ingoiare un paio di pagine, forse.
Basta.

sabato, marzo 31

Closing walls and ticking clocks

scritto e archiviato sull'holodeck
[ Scarlet Pursuit - cabina ]


Non mi era mai successo, fino ad ora.
O forse sì, m'era successo, ma con gente di cui non conoscevo né il nome, né il volto.
Qualche sera fa Vergil mi ha mandato un messaggio audio sul pad per chiedere soccorso: lui e Mughain si sono messi nei guai.
Ero talmente fatto da non rendermi conto di nulla. Nulla.
Ho sentito tutto dopo, impiegando un paio d'ore a riprendermi (temo d'aver esagerato, sì).
Sono un coglione eccezionale, davvero.
Potevano morire.
Io...
È la prima volta che avverto, nel profondo, un'avversione animale per la morfina. Prima di oggi, non avevo mai avuto persone comprese nel mio cerchio vitale, sulle quali ricadessero le conseguenze allucinanti dei miei atti idioti.
In ogni direzione mi muovo, risveglio un casino. Devo esistere in solitudine, questa è la verità.
Cristo santo.

martedì, marzo 27

This revolution, baby, proves who you work for lately

scritto e archiviato sull'holodeck
[Hall Point - monolocale]



È  tornata.
Le ho dato il quaderno (che le è piaciuto), le ho dato il bracciale (che le è piaciuto meno).
Ieri, oggi ho vegetato a casa, non ho fatto nulla se non guardare fotografie, bere, fumare, dormire, morfina.
Molto tempo dall'ultima volta in cui ho riposato.
Riposato, poi.
Riposo?
Sono crollato in coma per venti ore, senza un bisogno, senza un sogno, senza un segno, niente.
(devo contattare Vergil: anticipare le partenze, lasciare questo posto)
Mi sono alzato a fatica, imbevendomi di caffé sino al midollo.
Adesso sono qui.
Nella stanza aleggia il suo odore, dappertutto.

domenica, marzo 25

Start a war

scritto di getto, su un foglio di carta, a caratteri imprecisi e fuori riga
[Scarlet Pursuit - cabina]



Io e Montezuma siamo sulla Scarlet.
Non potevo dormire in camera. Necessitavo d'un posto privo di ricordi, di esperienze.
Ho scritto a Brent per spiegare il mio punto di vista. Se Donna riterrà opportuno, mi farò da parte.
Dimissioni.
Non mi interessa. Hall Point non è casa mia.
Non è la mia famiglia.
Nessun luogo è casa mia, niente è la mia famiglia.
Un lavoro, un lavoro in cui sono bravissimo. Per cui vengo pagato il giusto prezzo.
Cosa mi è preso?
Ratliff s'è infuriato. Ovvio.
Non mi interessa.
Il cervello di Ritter non mi da pace: quale spettro m'ha indotto a cercare Roona Wilson?
Ero fuori di me. A livello generale, ho innegabilmente ragione. Il Roadhouse pullulava di gente, munita di occhi ed orecchie, gente di Horyzon, di Greenfield, ben piazzata per assistere al massacro, col biglietto di prima fila. Gente che non starà zitta per fare un favore allo skyplex, sicuramente.
No, logicamente la ragione milita al mio fianco.
Non mi spaventa il giudizio esterno. Non me ne frega niente.
È  il tribunale della mente, il tribunale intimo, che temo.
Il tribunale personale.

sabato, marzo 24

There's a body in the lake

scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck
[Oak Town - stanze saloon ]



Oggi Donna Winter mi ha caldamente consigliato di accettare delle ferie.
Ciò può illuminare un solo significato: sono davvero ridotto male. Il principale si preoccupa per la mia salute. Cristo santo. Si preoccupa sino a intimarmi di rimanere a casa, con affetto.
Finirò di gestire la questione dei vaccini, per non mollare Foster con l'incombenza di sbrigare tutto da solo e poi approfitterò delle 'vacanze' per sbattermi su Clackline.
Fotografare mi riposerà.
Credo.
Evah Adams s'è licenziata dalla Shouye e, ovviamente, viene a lavorare ad Hall Point. Certo!
Che meraviglia... Un'opera d'arte. Un'opera d'arte fatta coi carboni dell'inferno. Un inferno.
Mi scoppia la testa. Tra la calotta cranica e il cervello ho una mandria di bufali impazziti.
Ratliff pure, a modo suo, si cura di me. Ha chiaramente dato ad intendere che Evah è territorio proibito, a meno che non voglia ritrovarmi un proiettile in fronte, firmato da un fantomatico 'qualcuno'.
Sono votato al massacro fin da bambino.
Portato al massacro, per attitudine.

giovedì, marzo 22

Bullshit three, ring circus, sideshow of freaks

scritto a matita, sul retro di un libro
[presso Oak Town]



È andata. 
Andata.
Non so cosa mia sia preso. Perché ho dovuto (di nuovo) ferirla.
Ho bisogno, costantemente, del suo sacrificio sull'altare della mia crudeltà infantile. 
Vorrei ci fosse una motivazione plausibile, ma non c'è. Ci sono solo io, le parole al momento sbagliato, le azioni, le reazioni. Il vuoto. 
Sono innamorato di lei e devo fargliela pagare, credo. 
Fino ad esaurimento forze.
Ad esaurimento di noi.
Questa è la ragione. 

Per poco non ci ammazzavamo di botte alla festa di primavera.
Se Vergil non m'avesse trattenuto, non lo so...
(prima o poi m'arriverà un destro da Neville e quella sì, è la volta buona che mi sotterrano, coi fiori e la croce di marmo)
Io ed Eir abbiamo seriamente un problema. Ognuno con se stesso, l'uno con l'altra, ciascuno con l'universo. Tutto. Dovevo rivederla, lo desideravo; la desideravo. Poi eccola lì e... niente. La rabbia. 
Furiosa.

martedì, marzo 20

Monsters and men

scritto e archiviato sulla memoria dell'Holodeck
[Hall Point - monolocale]




Stamattina ho guadagnato coscienza con una ghirlanda di chiodi in testa. Un dolore pazzesco. Per fortuna Montezuma mi sollecitava il risveglio, affinché provvedessi al suo nutrimento.
E al mio.
Avrei saltato il turno di lavoro. Una cosa che non m'è mai accaduta, fin'ora, nonostante tutto.

Ieri è stata una giornata assurda.
Innanzi tutto, il ritrovamento di Abel.
Peserà sì e no cinquanta chili e se ne sta arrotolato su un lettino all'ospedale. Poteva andargli peggio. Sì.
Avevo difficoltà a parlargli. So a malapena gestire i rapporti umani in fase di quiete, figuriamoci quando hanno brusche accelerate o prepotenti precipizi.
Nella stanza lattea, ieri, ho avvertito per la prima volta da troppo tempo un vago senso di gratitudine nei confronti del niente. Del tutto. Per un attimo ho sperimentato un debito verso la realtà. Stavolta m'ha stupito, m'ha stupito positivamente.
Adesso farò il diavolo a quattro per dimetterlo e trascinarlo ad Hall Point. A lui non piace stare a Horyzon (come biasimarlo); lo terrò d'occhio in modo semi-opprimente.
Mi ci specchio, talvolta. Non lo so. Quel modo di sorridere sempre, comunque, per non imbattersi in problemi, rogne, per congedarsi con disinteresse dalle dinamiche sociali... la disillusione e, in un certo modo, la volontà incrollabile.
È  stato in guerra, come me. Ha perso qualcosa, qualcuno d'importante, ha attraversato diversi inferni. Eppure riesce a progettare, a godersi le cose. 
Esco davvero miseramente da un confronto con Abel.
La questione non mi urta affatto, sinceramente, ma è reale.
Il fatto che ogni tanto mi senta quasi responsabile nei suoi riguardi è, in definitiva, un'assurdità assoluta.

sabato, marzo 17

Le cavalier sans tête

scritto su un paio di fogli. la calligrafia è abbastanza scomposta. c'è qualche goccia di sangue (persa dal naso) sulla carta .
[Scarlet Phoenix - cabina]


"It's funny how beautiful people look when they're walking out the door"


Conoscevo la conclusione (una frase che ripeto all'infinito, lo so, ma pare l'infinito non basti ad insegnarmi qualcosa).

Eir mi ha detto che mi ama, due giorni fa. Io sono andato a letto con Evah, oggi. 
Abel è disperso in un buco di merda da qualche parte, vicino a Shadetrack. Forse è morto. 
Per poco non ci rimetto le penne, con quella maledetta morfina, stanotte. 
Ho perso sicuramente Eir, forse Abel.
Che senso ha? 

Abel, dopo Will, sarebbe troppo. 
Abel ha già fatto la sua guerra, ha già speso tutto. Ha già esaurito tutto. Perché? 
Perché non ci lasciano in pace? Me, lui, quelli come noi. 
Non lo sopporto. 
Ancora. 
Se avesse concluso di respirare: non l'ho avvertito. Nulla. Esistevo, nel mio stupido, futile universo mentre lui soffriva (soffre?) in un posto remoto, inafferrabile. Possibile? 
Se sapessi come, dove, andrei a cercarlo. 
Mi pare quasi di sentirlo, la sua strafottenza, la sua faccetta da schiaffi:
'Uno come te non mi troverebbe mai'. 
Ha ragione.
Forse Roona sì, però. 

giovedì, marzo 15

History of headaches

scritto di getto su un foglio di carta, la pagina bianca di un vecchio libro
[nei pressi di Oak Town]



(certi miraggi fanno più amaro l'abisso)

Stamattina aspiravo a veder sorgere la luce naturale, nella mia stanza. Come a Corona, quel regno di raggi che scivolava su dalla vetrata del terrazzo. Come a Capital City, quando l'alba mordeva i grattacieli con innocente brutalità. La allungavamo col caffé, con le idee stupide e biascicate, con le parole. 
Le parole, Will, le parole. 
Mi ha consegnato se stessa a mani nude, pescandosi in mezzo ai vetri, e l'ha fatto con le parole.
Con le parole. 
Le ha riempite ad una ad una di tutto quello che è, di tutta la sua cieca furia, del movimento dei suoi muscoli irrequieti, della sua sensibilità disarmata e disarmante, dell'odore dei suoi capelli, del suo alcolismo, della sua violenta bellezza da creatura ferita. 
Poi me le ha lasciate lì, dove non potevo ignorarle. 
Will che devo fare? 
Vorrei infilarmi le dita nel cranio, sino al centro del cervello. 
Scavarmi lo sterno, fino a toccare il cuore dall'esterno. 
Vorrei tornare a un mese fa e non appoggiarmi a quella porta, a parlare con una donna confusa, spettinata, un po' infantile. Una donna che sarebbe diventata la croce del mio corpo. Vorrei non aver mai avvertito, quella volta, il fondale dell'anima impennarsi, impercettibilmente. Vorrei non averla mai rincorsa, al casinò, per leccarle via qualche ferita, per laccarmi via qualche ferita. Vorrei non averle mai chiesto scusa. Vorrei non averla mai fatta piangere. Vorrei non averla mai fatta ridere, soprattutto. Mai. Vorrei non averle mai raccontato della guerra. Vorrei che lei non m'avesse mai raccontato della guerra. Vorrei davvero, averci rimediato solo un paio di gambe ed un paio d'occhi incredibili. Vorrei non aver mai medicato quello sfregio, mai saputo dei suoi segreti. Vorrei non aver mai avuto bisogno di lei, un lacerante bisogno di lei.

lunedì, marzo 12

Conscience

scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck
[Hall point- monolocale]


Oggi ho trascorso l'intera giornata con il cadavere della donna trovata ieri nelle fogne. Mi sono fatto sostituire da Foster, benché mi spettasse il turno pomeridiano; ha anche tenuto a precisare che non vuole essere rimpiazzato stasera e stanotte, in risarcimento. Deve avermi trovato piuttosto provato, non lo so. 
Sparare m'ha procurato un certo effetto. 
L'ultima volta che ho esploso un colpo d pistola contro un essere umano è stato al fronte. Non ricordo bene le occasioni precise, è accaduto in più momenti della guerra di dover uccidere con la benedizione d'un proiettile. Probabilmente però, l'ultima pallottola l'ho elargita a Serenity. 
Rammento il ragazzo, per esempio. Avrà avuto quindici anni, poco più. Il browncoat gli stava larghissimo, apparteneva al padre. Mi disse che ci doveva essere almeno un McCoy al fronte (incredibile, ricordo il nome) e da quando il suo vecchio era morto sul campo lui non poteva certo tirarsi indietro.

sabato, marzo 10

the never-ending why

scritto e archiviato nella memoria dell'holodeck
[Hall point - monolocale]


Sono tornato a casa in condizioni pietose. 
Pietose. Ho bevuto in maniera imprevedibile. Nessuna intenzione di ubriacarmi, in principio: è venuto da sé. Ora, dopo una mezz'ora radiosa passata in bagno e quattro caffè, comincio a carburare decentemente. Montezuma presiede le mie ginocchia in una profusione di fusa. 

Ho passato la giornata su Greenfield, a cercare Verdiana. Niente, ovviamente. Adesso che avrei più urgenza di vederla, di capire, di parlarle. 
Lui era innamorato, incredibilmente. Non gli credevo. Facevo male. Se penso a tutte le assurdità che gli ho sputato in faccia, presumendo di sapere. Sapere cosa? 
Non sapevo niente. Non ho mai saputo così poco nella mia intera esistenza.  
Forse, prima o poi, dovrò tornare su Corona. Andare dalla famiglia di William, andare al cimitero a trovarlo. È  necessario; per me, per lui. 
A volte mi capita di restare nel silenzio della stanza e sentire quella sensazione, quella tremenda sensazione avvertita durante il ricovero: quasi che la realtà sfrigolasse, simile ad una radio priva di segnale, ad un televisore in assenza di frequenze. E poi, da dietro un angolo, William che compare, che ritorna. Per fortuna le allucinazioni non mi fanno più visita dalla dimissione. L'esperienza si blocca lì, in una sorta di disturbo grigio e pressante che affoga dietro la porta del bagno. 
Nessuna visione. 
Se ricominciassero le allucinazioni? Gli incubi? Il sangue? Il panico? 
Meglio non pensarci.
Verdiana non è rintracciabile, almeno con i miei mezzi scadenti. Forse dovrei chiedere a Donna. Possiede vie trasversali per risolvere qualunque problema. Sono certo che miss Winter la troverebbe per me. Ma non ho idea se, seriamente, sono pronto per un momento simile. 

mercoledì, marzo 7

memory serves

scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck
[Kijitsu]

Queste giornate sono al limite di ogni senso. 
Trascorri due anni senza che avvenga assolutamente nulla e, d'improvviso, ti piove addosso l'esistenza senza pietà. Credo dipenda dal lavoro per Hall Point. 
Hall Point è un crocevia. Fare parte dello staff dello skyplex non ti da la possibilità di nasconderti. E la gente che lavora qui, i miei colleghi, sono tutte persone che trattano la vita senza guanti. E la vita restituisce loro la cortesia. 
C'è una sorta di accordo taciuto, di cameratismo, di solidarietà carsica che scorre profondamente senza rendersi manifesta.
Donna è protettiva, con il proprio alveare. Possessiva, verso il benessere dei suoi dipendenti. 
Non so se Abel se ne sia accorto, ma credo di sì. Io e lui siamo relativamente nuovi. Relativamente spinosi (ciascuno in maniera differente).
Abel. 
Il protagonista indiscusso dei miei pensieri, di recente. 
Non sono ancora riuscito a parlarci e temo che mai ci riuscirò. Credo che non voglia nemmeno parlarmi. E penso lo faccia, in un certo senso, per me. Lo capisco. Fino ad un paio di giorni fa ero divorato da un desiderio atavico di prenderlo a botte: se solo m'avesse detto quello che doveva dirmi, allora, quando gli raccontai di Eir.

lunedì, febbraio 27

Little faith, follow me


scritto su carta, di getto, senza correzioni
[Hall Point, monolocale]


Ieri al Roadhouse ho incontrato Eir. 
Di nuovo. Fatico ad ammettere come quella donna mi sia rimasta piantata in fronte, dalla prima volta. Forse per la coincidenza del nome, forse perché è così simile a quello che io non sono più. O non sono mai stato. 
A William sarebbe piaciuta tantissimo. 
Magari, William ha influito. 
A cosa serve cercare spiegazioni? Non mi sentirò meglio, non mi sentirò migliore. 
Ha ragione lei: niente fa male adesso, che non abbia già fatto male un tempo.
Ed è vero anche il contrario: niente ha fatto un tempo, senza che torni a far male anche ora. 
Ma poi, è dolore? Oppure l'usato avvilimento nel constatare quanto ci sia di vivo al mondo, nello spettacolo a cui ho cessato di partecipare?
È  difficile chiedere il conto a se stessi. 

domenica, febbraio 26

I'm not the hero out the gate, so much to feel, so much to gain

scritto e archiviato nella memoria personale dell'holodeck
[spazio, nave Kijitsu]



Il viaggio è una condizione esistenziale piacevole. 
Puoi sospendere ogni questione sino alla meta, puoi sospendere persino te stesso, metterti tra parentesi. Lasciata una sponda, non sei ancora approdato sull'altra. Transiti e forse sperimenti una primigenia forma di redenzione. 

A volte penso che avrei dovuto fare il pilota. O il poeta. 

Mi sono appena ritirato in cabina e sono stanco. È stata una serata movimentata: eravamo quasi giunti in prossimità di Willow, tanto che ho potuto lambirlo con gli occhi, oltre i vetri della Kijitsu. 
Nonostante la vicinanza, siamo dovuti tornare indietro: uno sciame meteorico ha danneggiato i sensori. Peccato, sul serio. 
Ho compreso, con una punta di disgusto riflesso, che fatico a provare paura. Non mi spavento mai, veramente, intensamente. Anche in questa occasione: non era il timore per la minaccia attuale a farmi tremare le dita, non era l'odore pungente del pericolo imminente... le mani fremevano in nome d'una sindrome antica, d'un terrore atavico e distante, il mostro in fondo all'abisso. Non sono in grado di emozionarmi per nulla di sensibile, di attuale; ogni contatto esterno sommuove una memoria ed e quella memoria a muovermi l'anima. È artificiale. È conoscere il mondo dietro una lastra di vetro. 
Quanto tempo è che la carne non si impenna in un brivido autentico?

venerdì, febbraio 24

breathe underwater

scritto e archiviato nella memoria personale dell' Holodeck
[Hall Point, monolocale]


Raramente mi capita di essere così brutalmente in me.
L'ultima volta che ho bevuto seriamente è stato un paio di giorni fa, quando la signorina Evans è venuta in cerca d'una panacea per il suo sonno latitante.
Da quella sera, salvo due dita di pessimo whisky ogni tanto, il mio stomaco ha sguazzato unicamente nel caffè. Eccessivo caffè. In compenso ho divorato quattro batterie di sigarette.
Per quanto riguarda la morfina ed i suoi amici, ho stretto i denti attorno alla mia dipendenza, fino a strozzarla, a scarnificarla. Oggi ho vissuto una giornata all'inferno. Sono tre giorni che sbatto la testa sull'anta del frigo e resisto alle lusinghe della siringa. Non è virtuosismo, non è convinzione morale: è il troppo lavoro. Orribilmente troppo lavoro.
L'astinenza mi scuote le ossa, ho crampi dappertutto, perdo liquidi come una lumaca lasciata al sole.
Le usate difficoltà respiratorie, il vomito, l'asma indotta; ogni volta che boccheggio mi pare di respirare sott'acqua. Per resistere in laboratorio, per fermare i tremori, ho tagliato il Daxepam e me ne sono iniettato qualche tacca provvidenziale.
Prima o poi ci lascerò le penne, con questo sistema. Lo so.
Il bello di essere un medico tossicomane è che conosci già il finale del film.
In ogni caso, da domani dovrei riprendermi. Le ore a venire, i sintomi andranno a calare.
Non ho mai detto d'essere intenzionato a smettere. Capiterà di nuovo, non me ne faccio un cruccio.

mercoledì, febbraio 22

like spinning plates

scritto su carta, inchiostro azzurro, qualche correzione, mano poco ferma.
[Hall Point, monolocale]


Montezuma ha ragione ad essere fatalmente incazzato con me.
Me lo dimostra infilando le sue maledette unghie dritte sotto pelle.
E' come avere un vitello a motore sulle ginocchia. Dannato gatto.
Mi staccherei la testa a morsi se già non mi bruciasse tanto da rendere l'operazione inutile. Devo scrivere, mi fa bene, lo so. Merito una qualsiasi morte dolorosa a discrezione del cielo (?).
Sono uno stronzo.

Vado su Greenfield tipo, l'altro ieri. Una vita, dall'ultima volta (davvero, quando?). Vago simile ad un imbecille per i campi e le vacche, con un tasso etilico orrendo: rischio l'autocombustione all'accensione d' ogni sigaretta. Poi mi passa la sbornia, e con la sbornia passa anche il sacro fuoco dell'amicizia.