domenica, giugno 24

An animal with clothes on

scritto su fogli sparsi, a tratti macchiati di sangue e caffè.
[Horyzon, Capital City - appartamento]



Non capita mai che io avverta lo schifo di scrivere.
Ecco, adesso sì. Lo schifo di scrivere pagine pagine tra il deck e la carta, tra il plasma e l'inchiostro. Tra la verità e la versione adulterata della verità, la versione cadetta, la versione bastarda.
Gli incubi mi colano ancora giù dalle orecchie, sino alle spalle, alle braccia, alla dita, mentre mi godo questo risveglio a freddo della coscienza, fra corpo e pavimento.
Il sonno infestato di immagini, di pelle, di carne, divise, metallo, fiamme, acciaio, inferno; immagini di fischi neri, grida remote, di polvere arida. La polvere, ovunque. Nella camera asettica ne avverto ancora il sapore, mi esce dal naso, dalla gola; me la porto dentro. Sono una scarpa piena di sabbia.
La sabbia di Blackrock, d'un tratto, mi sommerge.


Sudore pallido ed una frequenza cardiaca arroccata attorno ai 170. Il fiatone, da fermo.
Forse quando sogno non respiro. Forse corro.
Probabilmente, quando sogno, scappo.




La blast riscuote il pegno al banco dell'organismo.



Giaccio qui, mi sono svegliato.
Qui è Capital City, è Horyzon, è il mio appartamento. Sono solo, salvo la discreta presenza di Montezuma e l'ingombrante invadenza dei miei frequentatori immaginari. Will resta il più affezionato; lo vedo trascinare il suo sorriso triste, bastonato dalla speranza, in giro per la casa. Di solito, è dietro il banco della cucina. Raramente parla. Mi guarda, quasi portasse piscine al posto degli occhi, piscine di trenta centimetri in cui è drammatico affogare.
Anche Eir mi scruta; compare poco, di preferenza dopo gli sfoghi rabbiosi. Quando accade, indossa una mia camicia azzurra e si siede vicina. Molto più vicina di Will. L'azzurro della camicia la spoglia più di qualsiasi nudità scoperta.
Entrambi, Eir e Will, non sbattono mai le palpebre. Sono capaci di fissarti per ore, immobili, le ciglia ferme come farfalle inchiodate. Lo capisco così, che non esistono. Che non sono reali. Non sbattono le palpebre e hanno sempre gli occhi umidi.


Cocci, ovunque. La scatola di un puzzle in vetro. Ho sfasciato diverse bottiglie, diversi piatti, credo.
Cocci ovunque.
Elia aveva otto anni, nel viaggio onirico dopo la tempesta. Otto anni, l'aria calma da bambino normale. Mi domandava se non volessimo ricostruire le cose, seduto in mezzo ai frammenti taglienti. La scatola di un puzzle in vetro. Prendeva in mano gli spicchi affilati, si tagliava tra le dita ed il sangue scendeva sino ai gomiti in una fontana esagerata ed inarrestabile. Continuava a ripetermi che sarebbe stato divertente, ricostruire le cose; sanguinava, si aprivano strappi sulla sua cute dalla fronte alle spalle; era simile ad un pupazzo che si smaglia e vomita pezza organica. La scatola di un puzzle in vetro. Eravamo qui, a Capital City, sulla settantasettesima, eppure lo scenario rappresentava la mia stanza su Eleria. Elia continuava a ferirsi; ferirsi e ordinare i frammenti a mucchi infiniti; i cocci sarebbero aumentati, fino ad annegarci, se non avessimo cominciato a ricomporli in unità. Ne aveva la certezza. La scatola di un puzzle in vetro. Elia mi spiegava come il vetro fosse sabbia, sabbia fusa. Mia madre ci diceva che il castello di sabbia sarebbe crollato, che i granchi sarebbero morti schiacciati, che il nostro gioco impegnato era futile e stupido. Rideva e lo pestava. Elia non coglieva le implicazioni, aveva una paletta verde; io smettevo per sempre di creare castelli con la sabbia.
La scatola di un puzzle in vetro.
Cocci ovunque.
I cocci hanno zampe.
Granchi ovunque.
Le zampe dei granchi.
La sabbia di Blackrock, d'un tratto, ci sommerge.


Giaccio qui, mi sono svegliato.
Ho incisioni superficiali sui polsi, i palmi, gli avambracci. Le lenzuola sono sporche di rosso, Montezuma mi annusa le tempie troncate da una sbornia in fuga precipitosa. Mi alzo, mi butto sotto la doccia in pantaloni, e penso che

Dovrei mangiare. Dovrei capire che ore sono. Dovrei contattare Neville. Dovrei uscire e procurarmi la roba. Dovrei mettere ordine. Dovrei lavorare all'ordigno. Dovrei vestirmi. Dovrei salire in moto e raggiungere il magazzino. Dovrei aprire la finestra. Dovrei chiudere il frigo. Dovrei leggere le notizie. Dovrei pensare. Dovrei essere lucido per. Dovrei andare da lei e seppellirmi nei suoi capelli, nelle sue unghie, nelle sua bocca finché non capisco dove diavolo sto sbagliando.

Dovrei smettere di sbagliare.
O iniziare a sbagliare con più coscienza.


176 battiti al minuto.



Moralità. Innocenza.
Sono un criminale. Nel senso letterale, grammaticale, linguistico del termine. Commetto crimini, contro una legge scritta, stabilita e controfirmata da secoli di bigottismo ipocrita, di ipocrisia accomodante.
Abbiamo sequestrato Charlotte Alcot. Ha poco più di vent'anni. Un bel viso. Si indigna quando minaccio un bambino.
Non mi sento in colpa. Non ho commesso nessun reato; o meglio, ho commesso un reato ma non sono colpevole di fronte a me stesso.
Perchè dovrei? Le multiplanetarie prosciugano il sistema, stilano classifiche tra esseri umani di serie a, ed esseri umani di serie b; classifiche strutturate sulle griglie dei sieri genetici, dei trapianti a pagamento, dei brevetti non concessi. Hanno armato le navi sotto cui ho visto morire fosse e fosse di persone.
Negano quotidianamente organi funzionanti a chi non possa permetterseli, blandendo gli spiriti con una sanità pubblica a metà.
Charlotte Alcot ha poco più di vent'anni, un bel viso, si indigna quando minaccio un bambino.
Dimostra senso dell'umorismo: se lo stesso bambino perdesse una gamba o l'uso di un rene senza potersi permettere d'esaudire una parcella, i vent'anni di miss Alcot ed il suo bel viso sarebbero l'egida sotto cui quel bambino andrebbe banalmente a morire, a perdersi.
La Blue Sun e miss Alcot fanno uso legittimo della loro libertà. Nessun biasimo.
Ma non mi sembrano meno criminali di me, di Neville, di Jamie, di Williams. Il fatto che il loro crimine si ammanti di avvocati e feste mondane non è che una mera, futile questione estetica.
Morale è.
La morale fondata su principi stabili, esterni ed oggettivi. Un'invenzione verbale che l'essere umano compie per codardia: l'appalto ad un terzo delle proprie ragioni interiori, dei propri imperativi emotivi, L'illusione che esista qualcosa di comunemente buono, comunemente giusto, un criterio rassicurante, universalmente valido per mondarsi la coscienza.
Esiste il caso particolare, il corpo, l'azione e l'interazione. Il momento. La morale comune sancisce bene e male a posteriori dell'atto, come un bollino, una valutazione, un giudizio, in questa società dove c'è sempre un pubblico, un tribunale, uno spettatore. Per me bene e male stanno a monte dell'agire, a monte della volontà ed esistono molto prima del risultato, molto al di là di esso. Dentro. Profondità a cui l'intelletto non sa sopravvivere.


La scatola di un puzzle in vetro.
163 battiti al minuto.


La scatola di Roger.
(la scatola di un puzzle in vetro)
Sul nastro c'è la sua data di nascita. Quella di Eir. Lo so. Era bella a cinque anni, era bella ad otto. Si vede nelle fotografie. Gli occhi sono i medesimi di adesso; allora stonava la rabbia da donna, adesso stona la dolcezza della bambina. Sono occhi impreparati a viversi sempre, ma coraggiosamente, fieramente pronti ad esistere. Montezuma dorme sulla bandiera indipendentista impolverata, macchiata d'olio.
Penso.
Roger Monroe era un uomo diverso da me che la storia m'ha reso simile. O meglio: che m'è stato reso simile nella storia. È andato in guerra perchè non aveva niente da perdere, e tutto da trovare; io sono stato al fronte perchè volevo perdere tutto, per non trovare niente. La sua famiglia, somiglia alla mia; tutte le famiglie ricche si somigliano. Banali e ripetitive, anche nell'originalità. Soprattutto nell'originalità. Quando possiedi soldi a pacchi, puoi permetterti il lusso di pensionare la fantasia, di corromperla. 
"Ho lasciato casa presto, appena ho potuto. Ho lasciato una gabbia di cristallo imbottita di carta, di lettere, di sapere e di bellezza. Una casa arredata in modo così minuzioso da assicurarsi che fra i mobili di legno pregiato e le opere d’arte non si nascondesse lo spazio nemmeno per un possibile battito di cuore. Il mio cuore non è mai stato discreto. Gli ho semplicemente insegnato, con pazienza, l’importanza della freddezza"
Hannah era una donna simile ad Eir, che la storia ha reso diversa da lei. O meglio: che le è stata resa diversa nella storia. Hannah è morta. Roger ha combattuto per questo. Ma avrebbe combattuto anche se Hannah fosse rimasta viva. Per la sua vita, o per la sua morte. Per l'avvenire, o per il ricordo. Quando nonostante situazioni opposte, la reazione permane identica, c'è un'unica spiegazione plausibile: quella reazione è quella giusta. La guerra, era giusta. Giustificata. Proteggere, vendicare.
La guerra funziona se la combatti per altri.
Con altri.
Io non assomiglio a Roger Monroe.
La guerra l'ho fatta in me, per me. Con me. E non era giustificata da niente.
'Un soldato con la risposta nella mente, e non in mano'.
"Un soldato con la risposta in mano, e non nella mente. Ho pensato al futuro, per un lungo lasso di tempo. E per quanto mi sia sforzato di cercarmi, io in quel futuro non mi ci sono visto. Ho visto Eir. L’ho vista da sola, con le ruote dentate attaccate all’organsimo per sopravvivere un altro decennio. Da sola, con la soluzione in mano. La soluzione dentro una granata, dentro ad un cacciavite, dentro all’odore della terra, dentro al cuore. In mano"
Nemmeno io mi vedo, nel futuro. Nel futuro che Eir prepara con la mia piastrina al collo, il mio nome sul petto. Ma capisco (solo ora) nell'arroganza di Roger che non hai diritto di immaginare un futuro, quando ti vivi e ti sei vissuto costantemente dentro la memoria. Nel futuro non ti trovi, perchè privo del coraggio di immaginarti. Privo della forza concreta.
Quando si tratta di futuro, di potenzialità, la verità coincide con la speranza, la realtà aderisce alla costruzione mentale. In una dimensione temporale in cui niente è e tutto potrebbe essere il sognatore ragiona negli unici termini realistici. Una scienza esatta del desiderio.
Sterling è questo. Capisco Roger, ma non lo scuso.
E quanto meno adesso so che non scuserei nemmeno me, se decidessi di piantarla in asso.
Monroe si è sbagliato. Eir non è sola. Magari in cattiva compagnia.
Ma mai sola.
Mai.


Roger nei propri appunti a margine di letture varie, afferma la necessità di mostrarsi coerenti fino all'ultimo respiro. Inizio a pensare che la coerenza sia sopravvalutata.
Bisogna prima scegliere con cosa essere coerenti. Con cosa e tramite cosa. Il cuore? Il cervello? Il corpo? La fede? Con Dio? Con una donna? Con un'idea? Un essere vivente che si ponga il problema della 'coerenza' è un essere vivente che ha già smesso di aderirsi perfettamente.


168 battiti al minuto.


Eir non sa niente di sua madre. Non sa nulla della croce e del nastro rosso. Non sa nulla di Hannah.
Tengo tra le dita frammenti taglienti della sua vita a brandelli.
La scatola di un puzzle in vetro.



Melissa Caprow infilò le dita tra i capelli folti e biondi, saggiando la superficie della testa e coccolando il proprio cervello prostrato in segno di muta, docile, riconoscenza. Sistemò gli occhiali sul naso, incamerò una partita ingente d'ossigeno profumato (amava bruciare incensi).
Poi sollevò il volto giovane e stanco oltre la scrivania, su cui si arroccava a furia di gomiti e spigoli. Eleazar fumava sempre nel suo ufficio, e avrebbe continuato a farlo fintanto che fosse esistito un divieto esplicito in materia. La guardava, dentro ad uno sguardo deserto, percorso da una rabbia statica che la sconfitta mutava in sarcasmo impenetrabile. Si lasciava scivolare scomposto sulla poltrona, con l'orgoglio e la spavalderia del male incurabile, della bestia impossibile.
Melissa misurò l'ammontare della propria impresa in quelle iridi verdi, in quel silenzio assetato di vuoto. Melissa sapeva che sarebbe stato difficile; aveva accettato per questo. Era un'eccellente psichiatra.
Perchè Ritter era impossibile. Era tagliente; ed era a pezzi.
Lo fissò.
- Bene. Mi hanno affidato la scatola di un puzzle in vetro.
Lui sorrise. Un sorriso ripido, sornione e sfacciato. Al limite tra compiacimento, abbandono e derisione.
Melissa se lo fece bastare.
E fece male.