mercoledì, marzo 27

Salt

[scritto su un foglio di carta nell'infermeria della base alleata ad Oak Town]



È strano sentire dolore. 
Non ci sono più abituato. 
Il dolore più forte avvertito nella mia vita è stato il proiettile in guerra, sul fronte di Viridian, Boros. Credevo sarei annegato nel ferro, nel sangue. Desideravo perdere i sensi e smettere di contrastare lo strappo lacerante, dilatato migliaia e migliaia di volte, sbranato dal cuore in pulsazione squilibrata. 
Credevo sarei morto. Non sono morto.
Che ingenuo, verginale candore: una pallottola. Figuriamoci. 
Adesso ho un corpo tappezzato di cicatrici; le vene esauste di oppiacei: il dolore ha perso mordente, nell'esperienza, nella chimica. La Fine si è persino stancata di battermi l'indice sulla spalla quotidianamente; le saranno venuti i crampi, a furia di pungolarmi. 

Pensare di morire in un unico, rapido istante è euforico. È naturale, persino affascinante. Puoi reagire, ad una cosa del genere. Ad un colpo. La morte in faccia in una sola secchiata violenta. 
Ma puoi reagire a...questo? Alla morte in faccia elargita col contagocce, goccia a goccia? La vecchiaia, la tossicodipendenza, l'alcolismo. 

Fargate. La prigione. 

Sono stanco. Terribilmente stanco. 

Penso a domani. Penso a dopodomani. Penso al sopraggiungere delle crisi di astinenza. Penso ad una cella chiusa. Una cella chiusa, o un corridoio stretto. Non è mai stata diversa, la mia vita. Penso al futuro, come sembra plausibile adesso. 
Se non ci fosse Sterling, se non ci fosse Cecilia, avrei caricato la weyland e mi sarei sparato in bocca, mirando appena a sinistra, per stare tranquillo. Non c'è niente di triste, o drammatico in una constatazione simile. Niente di lacrimevole. È la conclusione inevitabile di un sillogismo semplice. 
La vita non ha valore di per sé - la vita ha valore se gli dai valore - se non dai un valore alla tua vita, la tua vita è inutile.
Sono pigro, per natura. Ho difficoltà con le cose utili, con quelle profittevoli, figurarsi se trattiamo di futilità. No, mi sarei sparato. Senza pensarci, magari un giorno più noioso o vuoto degli altri. Un giorno di pioggia a Capital City, simile a quello in cui tornai da Hera. 
Mio padre sarebbe sinceramente contento di seppellirmi. Mio fratello, che è uno scemo, piangerebbe un pianto che non merito. Mia madre ingoierebbe un tubo di sonniferi, una bottiglia di vino, concludendo ciò che andava concluso anni fa. 

Se non ci fosse stata Eir. 

C'è stato un periodo, una primavera, che abbiamo trascorso al Ranch. 
Ancora le bussavo alla porta come un clandestino, tra le perplessità di Roona, le torte di Mary, la compiacenza di Sam, a cui devo non so quante fucilate risparmiate nella notte stellata di Greenfield. Non avevamo responsabilità; non vedevamo tutto questo sangue lordarci la pelle fino ai gomiti. 
Io ero innocente nella mia stasi, Eir innocente nella sua illusione.
Il prezzo per trasformare la stasi in movimento, l'illusione in verità, è stato alto; altissimo; la perdita dell'innocenza (una media innocenza, quale può essere una scusabile colpevolezza veniale). Adesso siamo colpevoli in modo crudele. Siamo brutali. Siamo terroristi. Criminali efferati. 
Ogni cosa esasperata all'estremo, la posta sempre più alta. La furia che impieghiamo per raggiungerla, fino a sbranarci, sbranarsi. Stragi. Droga. Sequestri. Omicidi. 
Le persone mi suppongono insensibile, perchè non esprimo biasimo, non esprimo sofferenza. La verità... la verità è che mi manca l'ipocrisia per farlo, l'ipocrisia per concedermi il biasimo altrui e la personale sofferenza. La switch, la blast che ho creato avrà ammazzato non so quanta gente, distrutto non so quante famiglie. Senza scivolare sul melodramma: le medicine, le sigarette, il sapone, il caffè solubile, la fottuta acqua... tutto il sistema. Ogni spesa, ogni quieta assimilazione del benessere, ci toglie giorno per giorno la facoltà di piangere di fronte ai bambini dolenti del 'Verse. 
Senza appello. 
Sono soltanto infinitamente meno ipocrita. Assumendo ogni grammo di responsabilità. Ogni centimetro quadro di colpa. Lucidamente. Nella coscienza limpida di non poter fare assolutamente niente per mutare la realtà universale. 
Recuperare una femorale recisa, una voragine all'altezza delle viscere, una scheggia di granata tra le vertebre, quello sì. Posso salvare un essere umano. Uno, due, dieci, cento, migliaia. È bene? È male? Quanti di questi diventeranno ladri? Bugiardi? Quanti picchieranno la moglie? Quanti violenteranno le figlie? Quanti getteranno il proprio destino nel cesso o lo sgozzeranno sull'altare del gioco d'azzardo, del whisky economico? Quanti mostri? Quanti soldati senza un'anima? Quanti politici senza un cervello?
È bene? È male? 
Se è nell'azione pratica che emergono il male ed il bene, come possiamo parlarne se non riusciamo a prevedere le inenarrabili, infinite conseguenze d'un gesto qualsiasi? 
Non lo so. 
Sono un dottore. Tra i migliori. Preferisco valutarmi col metro della mia abilità che con quello della mia morale. Jack è un capitano. Tra i migliori. Preferisco valutarla col metro della sua abilità, che con quello della sua morale. Quanto meno, il primo, è fattualmente stabile. 

Se non ci fosse Eir. 
Emotivamente, interiormente, con lei, sono eticamente irreprensibile. Sono giusto. Sono coraggioso. Sono pronto a migliorare, pronto a cambiare. Soffro, mi dispero. Avverto la colpa, la vergogna. La giustizia, l'ingiustizia. Perchè la amo. L'amore questo può farlo. Solo l'amore, probabilmente. Soltanto amando l'umanità intera si può vantare la pretesa di essere buoni, di essere retti, si può pretendere il diritto di soffrire per le brutture della realtà. Il problema è: amare l'umanità resta appannaggio di profeti mitologici.
Come Buddha e Gesù Cristo. Alla meglio, non sono esistiti. Alla peggio, non hanno cambiato nulla neanche loro. Non esistendo, ci farebbero senz'altro una figura migliore. 








venerdì, marzo 8

Dig, Lazarus, dig



[Corona, tenuta Ritter, 8 marzo 2501]

Quando è di un certo umore, quell'umore, al pianoforte suona solo crescendo.
Li improvvisa, li rammenta, e cresce sui tasti, cresce dentro, in qualche modo inspiegabile. Cresce dentro, per qualche sentiero invisibile ed inestricabile, tra i rovi della coscienza. Non ha mai pianto, il pianoforte è sempre arrivato prima del pianto e le ottave prima delle lacrime. 
Batte le note con una violenza fervida, cedevole, ad occhi chiusi. La schiena sudata, il viso pulito, su cui la rabbia snudata ha la consistenza di una acerba lama di ghiaccio. Muove la testa, il ritmo lo scuote in modo languido e snervato. 
Le urla di sua madre, al di là del pavimento, quasi non si sentono più. 
Il muro del suono. 
Definizione perfetta. 
Il muro. Del suono. Il muro. 
La fortezza del suono, i bastioni del suono. 
L'enorme finestra è spalancata, le tende gonfiate dal respiro del temporale notturno. La luce crepuscolare, le sigarette schiacciate, la bottiglia svaporata di vino d'annata, le unità di memoria sparse sul letto, riempite di manuali ed articoli medici. Piove raramente, su Corona. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. Il resto che incalza, alle pendici del regno, del castello.  Se smetti di suonare sei morto, se smetti di suonare ti prenderanno. Il resto che incalza, sono i pugni incerti di Elia alla porta, la voce incerta di Elia oltre la porta. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. 
Suo fratello prova, riprova. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. 
Eleazar si blocca. 
Il silenzio frana tutto assieme. 
Sua madre al di là del pavimento. Il cielo scrosciante. Elia. 
Sospira, piegato sullo sgabello. La mano affusolata aggredisce il posacenere: prende un mozzicone ancora arrossato dal fuoco, lo succhia, lo spegne. Buio. 
Si alza. I passi si sollevano lungo gli strilli di Rachel, le suole decise sulle ali dello strazio squilibrato, un vaso che si frantuma, un ringhio confuso. Apre di scatto. 
Sono le due. Sono in due. 
Elia, in pigiama grigio, la sinistra sollevata, confusa, la faccia stanchissima, affranta ed intimidita. A diciotto anni è poco più basso di Eleazar, più robusto ed allenato. Elena, con una felpa di Elia addosso, tace aggrappata ad una gamba dell'altro, gli occhi fradici, legati con lo spago grezzo dell'orgoglio infantile. Una bambina. 
Eleazar li scruta, non cambia espressione, non apre bocca. È ancora in camicia, gli stessi pantaloni neri con cui ha viaggiato, da Horyzon, sino a casa. Casa. Non cambia faccia, non apre bocca. È saldo, fermo e scostante. Sprezzante, forse. 
Gli strepiti al piano inferiore disegnano lo sfondo di questo scenario statico, statico salvo il respiro. 
Gli strilli percorrono e vibrano le pareti, gli angoli dei mobili, in verticale. 
Elia boccheggia, cede, fissa i piedi scalzi, sul marmo gelido. Non riesce a domandare; domandare cosa, poi. Cosa.

«Sa'ar...» 

La voce di Elena è un pigolio sommesso, ma volitivo. Elia trasale, le stringe la mano. Pare ricordare, illuminarsi. Torna sul fratello. 
Eleazar è ancora lì, simile ad una statua indistruttibile e priva di appigli. 
Si fissano, a lungo. 

«Spostati»

Un sibilo, scostante. Eleazar li scansa entrambi, in modo freddo ed irruento al contempo.

« El...»

Non lo sta ad ascoltare. Percorre il corridoio. Percorre le scale, l'ampia gradinata monumentale che collega le ali dell'immensa tenuta dei Ritter. Veloce. L'isteria di sua madre, a svariate stanze di distanza, lo accompagna come un inno venerando e terribile. 
Spalanca una porta. Un'altra. Mano a mano che marcia, il volto vagamente efebico, allungato, si carica di ombre spossanti, frementi. Un furore marcato a china. Ogni svolta una sottolineatura densa, ed un'altra, un'altra, un'altra. 
L'ingresso della camera è a pochi metri. Pochissimi metri. 
Eccolo. Schianta i palmi contro le ante, un impatto violento. 
Il bagliore mielato del salotto lo sommerge. 
Come un punteruolo che graffia un disco sguaiato, il suo avvento ammutolisce la scena. 
A destra Rachel, riversa sul pavimento, appesa per un braccio allo schienale del divano, schiacciata dal peso dell'alcol, della frana di ricci biondi, si cede addosso nel tentativo di sollevare corpo magro, quasi cavo. Furente, in mezzo ai cocci. Un fuoco stremato. 
A sinistra, Herzog, in piedi, impassibile, nella propria cinica compostezza. La veste da camera scura, l'espressione del giudice, del sovrano della divinità senza bontà. Un'entità che dispensa potere e testimonia se stessa nell'atto di dispensare. Volontà e vittoria. È indifferente all'ira frustrata, consumata della moglie. È indifferente alla sconfitta, alla rovina, al disastro. 
Eleazar ha diciassette anni. Guarda suo padre. Suo padre lo guarda. 
È tutta lì, la misura dell'odio che non cede alle parole. 
Che non chiede alle parole. 

«..Sa'ar...» 

La voce spezzata, bollente, di sua madre lo raggiunge. 

« Zitta » 

Le intima, in malo modo, lontano dalla pietà, lontano dal cuore, mentre si volta, si piega, le passa un braccio sotto le gambe, l'altro dietro la schiena. La solleva. Meccanico. Rituali consumati. Rachel si aggrappa in modo confuso al suo collo. 
Herzog non lo ferma. Non proferisce verbo, mentre il figlio nel mutismo solenne attraversa la soglia, portando via una donna a pezzi, inconsistente dentro i propri trentacinque anni, dentro i propri trentasei chili. 
Eleazar cammina, spedito, l'ingresso deserto s'allontana dietro di lui, le caviglie esili di Rachel oscillano nell'aria, la sua testa batte contro la spalla del figlio.
Elia ed Elena, nella medesima composizione, lo attendono a mezze scale, sul pianerottolo. Quattro occhi, due impauriti; due tristi.

«El... come...come...»

«Mamma...»

«Andate a dormire»

«Cosa...»

«Andate a dormire»

Eleazar li evita, non rallenta, li lascia indietro. Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. Rachel geme, fuori di sé. Ride. Una manciata di secondi e sono giunti ai suoi appartamenti. Eleazar scarica la madre sull'ampio divano, nessuna gentilezza. Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. 

«Sa'ar... aspetta... Sa'ar...»

La chiamata lo rincorre, ignorata, che già sta uscendo, senza voltarsi indietro. 
Traccia il percorso a ritroso in modo preciso, calibrato. Non accelera, non decelera. Ingoia, respira. Gradino dopo gradino. Angolo dopo angolo, è di nuovo in camera sua. 
C'è silenzio. Silenzio e pioggia. Azzurro notturno. 
Strofina il viso. 
Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. Gli tremano finalmente le dita. Finalmente. Accende una sigaretta. Esce nell'aria fredda. Rabbrividisce. Sta meglio. 
Il mare è una macchia misteriosa. 







***



[Corona, Hotel Chevalier, 8 marzo 2514 - scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck]



Se avessi potuto esprimere la rabbia come tutti gli altri, forse non sarei partito per la guerra. Se avessi potuto esprimere l'amore, come tutti gli altri, forse non avrei studiato medicina. Se avessi potuto esprimere il dolore, come tutti gli altri, forse non sarei divenuto in morfinomane senza scopo. 
Se avessi saputo esprimere la rabbia, l'amore, il dolore come ogni essere umano, senza dover fare di ogni emozione un esperimento al massacro... Se fossi stato più semplice. Più vivo. E avessi odiato, avessi riso, avessi pianto. Forse. 

Non ero in grado. 
Non me lo potevo permettere. 





mercoledì, marzo 6

When anger shows

[Corona, 1 Marzo 2514]



«Stasera andiamo dai Morris. A cena. E tu verrai»

Le dita salde svuotano le asole della giacca dal taglio classico con maestria e praticità. Con decisione. Sfila, passa alla cameriera, ringraziandola con un gesto automatico del capo, un gesto veloce ma immancabile. Sujong china la testa, la faccia appiattita in risposta. Attende, come in un rito, la deposizione della cravatta. La attende senza guardare, studiando le preziose cuciture a mano della stoffa di cui, rispettosamente, si farà presto tutrice.
Rachel è seduta su suo letto (che non è lo stesso di Herzog), a gambe incrociate, la schiena rigida, la superba torre di ricci biondi arricchita da un nastro rosso; una posizione di yogi, quasi, ma da yogi del potere, della potenza. Indossa una veste da camera nera, ricamata ad azalee purpuree e orlata d'oro. L'oro e le azalee si contendono lo spazio irrisorio del suo corpo magrissimo, infittendosi tra le cosce, inarcandosi sino a deformarsi in punta delle ginocchia sporgenti, delle clavicole ripulite di tutto fuorchè la carne. Le mura attorno, senza mobilio, sono intessute di minuscoli pixel digitalizzati, ognuno in tinta diversa, atti a riprodurre un perfetto mosaico. Al momento assemblano una danza in amaranto. Ed amaranto sono le lenzuola aggrovigliate presso le caviglie della donna, accucciate ai suoi piedi delicati, come un cane infernale.
Rachel ride, glaciale e aggressiva, tende il polso verso la coppa di vino, ingombranti bracciali di argento cozzano a esasperare il suono impietoso della sua risata.
Herzog non si scompone; la ignora. Sgancia il primo bottone della camicia di seta cobalto, dalle linee vagamente orientali. Sujong riceve dal padrone le ultime parti dell'armatura, in un rituale altamente automatizzato. Attende che l'uomo allenti i polsini, nel caso vi fossero ulteriori direttive.

«Puoi andare Sujong, grazie»

I sibili sarcastici di Rachel sbatacchiano senza risultati sulla compostezza serena di Ritter. La cameriera si defila, annichilendo la propria esistenza dietro la porta automatica. Herzog inizia ad arrotolare metodicamente le maniche.
Tiene gli occhi verde chiaro, un verde imperscrutabile, impermeabile, su sua moglie. Il volto percorso dall'età, ha una gravità composta, senza emotività. Una gravità materiale, quasi monumentale. Un sopracciglio si arcua appena, a seguito d'una perplessità più simile al fastidio che alla rabbia. O all'attesa abituale.

«Lo trovi divertente?»

Rachel continua a ridere, arriccia le labbra bianche sul bordo del vetro. Sembra lo morda. La risata si aguzza, svetta a tal punto da tramutarsi in un soffio felino.

«Mh, stavo chiedendomi soltanto chi sarà la cena, stasera»

Herzog inspira, sotto la patina d'un sorriso rarefatto, conciso. Ha sessantadue anni, ma la stabilità marmorea, la ferocia sociale temperata da un'educazione strategica, ne hanno conservato l'aspetto giovane.

«Immagino ti sia indifferente. Non mangeresti in ogni caso, o sbaglio?»

Replica, dando un'ultima aggiustata alla seta. Rachel lascia stridere le pupille, raggelate nel celeste algido, ficcate nel ghiaccio, sull'immagine di Ritter, in piedi a quattro metri da lei. Prosciuga la coppa. La butta sul materasso, in modo scontroso, irrispettoso. Un'eleganza maleducata, urtante. Altezzosa. Le guance vibrano, lo scatto d'un rettile in fuga, mentre sfodera il silenzio più ingombrante che si possa concepire tra due persone. Slitta sopra le lenzuola, si sospinge sul bordo del letto, scoprendo le gambe lunghe, inconsistenti, di fenicottero. Sotto la pelle traslucida, d'avorio pallido, corre una ragnatela di vene vistose.
In piedi, ondeggia, mentre si dirige allo specchio allungato. I tasselli digitali emanano un fioco bagliore mielato, componendo il quadro d'un banchetto antico. Rachel azzarda delle mosse con le dita ossute, cercando di afferrare ora un'ampolla di profumo, ora una forcina. È tutto drammaticamente complesso, il vino in vena e le forze che mancano. Ingoia, fissa le punte dei piedi, le unghie pallide si conficcano nei palmi.

«Perchè dai Morris non ci porti Lana Kaynes? O... no aspetta, forse le Shouye di Corona hanno iniziato a tediarti, dopo assidua frequentazione. Prova la figlia del dottor Wellington. Con benedizione ed assistenza di suo padre, mi sta con due dita alla carotide da mesi aspettando solo che cessi di respirare»

Herzog guarda la moglie, poggiarsi al piano da trucco, screziato di madreperla. Non fiata. Non subito. L'espressione non cede d'una virgola; quasi non si trattasse della donna che ha sposato, di quelle parole insultanti, di quella rabbia nervosa ed inesauribile. La rabbia squilibrata dei Cavendish, il loro furore da nobiltà impazzita dentro se stessa.
Ritter sfila un pacchetto umile di sigarette dalla tasca. Un accendino costoso, ma sobrio, come tutto quello che lo riguarda. Persino la crudeltà.

«Il dottor Wellington è uno dei migliori medici del sistema Central, e dunque, del 'Verse intero, Rachel. Per quanto l'orgoglio possa risentirne, devo comunicarti che nutro dubbi in merito alla sua spasmodica voglia di ucciderti. Se volesse, gli basterebbe lasciarti a te stessa una settimana, dopo tutto. Nessuno riesce bene a farti del male come ci riesci tu»

Pesca un filtro con le labbra, in un gesto consumato.
Sua moglie china il capo, trema un istante, prima di sospingersi diritta, in uno scatto aggressivo. L'aria attorno a lei si deforma in una perturbazione al di là della materia, l'angoscia comunicata dal paradosso insanabile del ghiaccio in fiamme. Contrae i piccoli pugni.

«Stronzo»

Herzog non reagisce. La scavalca mentalmente, accendendo l'Engine. Lei prosegue, fremente, ma contratta in una fermezza squilibrata, innaturale.

«Perchè adesso... Wellington? Perchè? Perchè invece di parlare di Wellington non... non ti esprimi sul resto, cazzo, cazzo..il mio discorso, il mio...»

«Rachel, per cortesia»

«Per cortesia?! Ti sembra che sia quel viscido di Wellington il punto della questione? Quell'inutile parassita compiacente... ti sembra che...sia questo il punto del mio fottuto discorso»

«Non capisco la ragione di questo astio nei confronti di Wellington. Sei tu, solo tu a rendergli il lavoro impossibile»

«SMETTILA, non è Wellington il...»

«Seriamente, rifiutare le cure e crogiolarsi nel vittimismo è un tuo problema, non riguarda la professionalità di George» pausa «professionalità per cui George è generosamente remunerato dal sottoscritto, oltre tutto»

Rachel ha un'apnea di alcuni secondi che le illumina gli occhi e le dilata le pupille. Suo marito aspira la prima volta, la seconda. Sono tiri lunghi, calibrati ma avidi. Un'avidità addomesticata e resa pacifica dall'abitudine. La donna si sente soffocare, sbatacchiare contro le pareti di vetro d'una gabbia stretta pochi metri e alta centinaia di chilometri. Non c'è scampo con Ritter. In nessun modo. Gioca sempre il proprio gioco, con le proprie regole. E vince.
Ride, di nuovo, una risata isterica e satura di disprezzo. E stanchezza ancestrale. Una stanchezza endemica, genetica, ereditata dalla decadenza inesorabile della sua famiglia. Espira. 

«Non fumare qui dentro. Mi infastidisce»

Herzog modella una smorfia di chiaro sarcasmo ordinato. 

«Oh, Rachel, sappiamo entrambi cosa è che ti infastidisce»

Rachel tace. Si siede, fissa il proprio riflesso nello specchio. Stranamente non replica; pare che muova un passo indietro, riconoscendo la mossa falsa appena compiuta. Riconoscendo di aver varcato un confine argomentativo pericoloso. Il marito, invece, prosegue, senza pietà: 

«Fumo Engine da sempre, non ho intenzione di cambiare per assecondare il tuo feticismo fanatico»

Rachel resta fissa in avanti. In modo terribile. Muta, in modo terribile.

«Tra l'altro è la ragione per cui le fuma tuo figlio: i primi pacchetti li sfilava dalle mie tasche a quattordici anni»

«Nostro figlio»

Herzog si volta, disinteressato, fissando le tre ampie holografie proiettate dalle cornici digitali, sulla parete retrostante, a dimensioni notevoli, murali. Sono ritratti di Rachel Cavenidsh, a diciassette anni: ballerina professionista, etoile del teatro di Berishan. Il fisico snello, esile ma sano, reattivo, avviluppato morbidamente in una tunica luminosa. L'aveva conosciuta così, trafelata sotto il palcoscenico, quando ancora si esibiva. Prima di innamorarsi di lui. Di sposarlo. Di restare incinta di Elia. E di Eleazar poco dopo. 

«A proposito di nostro figlio: sarebbe il momento di sgomberare le sue stanze. Vorrei avere un luogo spazioso in cui ospitare degnamente la famiglia di Jessicah, d'ora in avanti»

«Jessicah sta bene dove sta. Lei e quell'inutile famiglia di pezzenti arricchiti possono occupare comodamente gli appartamenti di Elia. D'altronde è sua moglie»

«Non vedo il motivo» 

Ritter oppone un razionalismo coscientemente urtante, consapevolmente fuori tono, continuando a scrutare le fotografie della consorte, una boccata di Engine dopo l'altra: 

 «impegnare duecentocinquanta metri quadri per permetterti di infilare le dita in qualche vecchio vestito, dormire su un cuscino o carezzare saltuariamente un pianoforte mi sembra... inopportuno, ecco. E malato»

«Esci di qui»

«Alle sei e un quarto, ti attendo nell'atrio. Desidererei che portassimo insieme le condoglianze a Christian Morris per la tragedia del padre»

«Esci immediatamente»

Herzog spegne la sigaretta quasi intera nel posacenere riempito di Peacock accartocciate e foglie di fragola. Sorride con calma e serenità incredibile. Insultante. 

«Bevi con moderazione, non ho intenzione di trascorrere la serata a scusarmi»

«Ho. detto. FUORI»

Ritter non accelera, non si affretta. Non depone il sorriso mentre raggiunge l'ingresso. 
Poco prima che varchi la soglia, la voce arrochita e spigolosa della moglie lo raggiunge un'ultima volta. È rotta in più punti, dall'ansia e dall'affanno. 

«Quando abbiamo cominciato ad odiarci così?»

Lui si ferma, in una mossa morbida, quasi gentile. La guarda. 
L'espressione calma, d'una calma inattaccabile, senza crepe, senza peso, investe la figura instabile e orgogliosa della donna, sciupata dall'alcol, dall'anoressia e dalla depressione. Sciupata dalla vita, dallo squilibrio, da se stessa. È bella, comunque. Lo rimarrà sempre. A monito e condanna. 

«Quando tu hai cominciato ad odiarti così, Rachel»