lunedì, maggio 21

Make a deal with God




Rachel Cavendish percorre il corridoio. Il corridoio le scorre sotto ai piedi magri, mentre la pelle d'alabastro bacia il mosaico a volute leggere. Le vetrate in cristallo la immergono in un'impareggiabile acquario di luce. Vi passa le dita, lasciandole indietro a lambire le trasparenze intrise di sole; la testa ruota, esponendo il collo ai passi futuri, abbandonando gli occhi grigi sulla scia invisibile della mano, dietro di lei. Fragili vene azzurre le cingono i polsi, le caviglie, come screziature iniettate in una coppa di marmo. Fuori, il verde trionfale, la pelliccia sontuosa adagiata su Corona. La tenuta dei Ritter si estende troppo oltre per apprezzarne il confine. 
Assapora l'ondeggiare molle del vestito lungo, sulle gambe magre, sul ventre scavato, sul petto nudo. Una tunica semplice, d'un amaranto intenso, che ne esaspera la figura esile coronata di minuti ricci dorati. La sinistra culla un calice di vino. L'ennesimo. 
Il brivido della fame protratta, dell'alcol, della massacrante quotidianità violata. 
Rachel si muove a rallentatore, diluendosi nei gesti, diluendosi nell'aria fresca del patio. 
Il grande salone a volta la accoglie come un'enorme nicchia, una caverna artificiale. L'ombra la avvolge, spezzando i raggi che bruciano le linee del viso, le volute dei capelli, le creste della stoffa rossa. Un profumo di anemone e magnolia ne tradisce lo spirito. 
L'angolo delle labbra esita tra la quiete ed il sorriso, in un vibrare che rammenta le ali delle farfalle. Lo sguardo acceso, irrequieto, sbatacchia contro la compostezza dei tratti garbati, addestrati. Sbatacchia tra le tempie, sotto le ciglia leggermente truccate, sopra le ombre morbide delle occhiaie, a scossoni stremati e frementi. 
S'agita un crescendo, dentro di lei. 
Bloccata al centro della stanza. Circondata dal proprio lusso, dalla bellezza. Circondata dal vuoto. Tra sé ed il mondo, una camera d'aria. Tra il suo petto e il suo cuore, una camera d'aria. A pressioni differenti, a pressioni inconciliabili. Quarantanove anni di educato tiro al massacro. 
Immobile, i denti serrati attorno ad una nocca sbiancata, con insana intensità predatoria. 
- Signora, non mangia da ieri a colazione, vuole le prepari qualcosa? 
Sujong si liscia l'uniforme, una faccia priva di declivi, di angoli, quasi che lo chignon corvino, stretto dietro la testa le spianasse il volto, le tirasse i vertici dei muscoli, delle palpebre sino a dilatare l'espressione reverente e spaurita. 
- Signora? 
Rachel ha un sussulto, un trasalimento che le impenna le spalle appuntite, le esplode tra le scapole libere, sulla nuca scoscesa. Le trafigge il petto e zampilla tra i denti bianchi in una risata euforica, insana e liberatoria. La cameriera, muove un passo indietro, come le avessero rovesciato fra i piedi una rovinosa cascata di perle purissime. 
- Signora...
- Ha venduto le azioni. Le ha vendute tutte, Sujong. Tutte quante. 
- Signora, non capisco...
Rachel continua a ridere, e più ride più la risata sottile si intride di rabbia e redenzione. La sclera lampeggia, selvaggia, inumidita. 
- Decine di migliaia di dollari...Adesso... adesso... Avranno un bel da fare a rimettere a posto le cose. Povero Herzog... povero vecchio...
Stringe gli occhi e la risata recupera vigore, inarcandosi nel disprezzo. La dona si flette appena in avanti, apre la bocca, prende fiato misto al cristallo della propria ilarità sconvolta. E grata. 
Sujong fissa la padrona in un innocente sinergia di disprezzo ed ossequio. 
Rachel si acquieta, lentamente, fiaccata dall'entusiasmo delirante. Due rughe gravi, impavide, osano esporsi a margine delle guance compatte. L'atmosfera, svuotata di quel chiasso aristocratico, malato, si dilata spaventosamente, in un prolasso di muta tristezza, di cortese squallore. 
- Fragole. Voglio delle fragole. 
- Ma, signora, non ha toccato cibo per...
- Fragole, ho detto.
- Subito, signora.





scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck
[Richleaf, Maracay - stanza]

Quando da studente venni su Richleaf, sostai in un complesso scientifico fuori città. Stavo a diverse miglia da Maracay, spesato da una borsa di studio al merito. Di questo pianeta ricordavo semplicemente il caldo, la luce bianca, bruciante, una quindicina di giorni trascorsi in sbornie clamorose dentro il bio-laboratorio. L'unica volta in cui riuscimmo ad 'evadere', tornai in camera talmente fuori di me da rendere l'esperienza un buco nero inenarrabile. 
Ci sono tornato durante la guerra. La firefly dei Ribbons atterrò per fare rifornimento di materiale medico, prima di partire al suicidio su Blackrock. Mi feci un'idea completamente sbagliata del conflitto, a primo impatto: l'alleanza non bombardava, per preservare l'integrità delle strutture. La battaglia si esauriva in un'estenuante e lenta guerriglia di terra, città dopo città. L'afa polverosa, le barricate, le strade deserte, i colpi di pistola, le urla delle granate. Si trattava di guadagnare un vicolo, una via. Non chilometri di terra. 
A distanza di dieci anni, ritorno. 
Maracay è impressionante. Un'urbanizzazione senza freni, disordinata, disagiata, i grattacieli in cemento svettano tra lenzuola di baracche, di case fatiscenti, spianate d'asfalto, vicoli tortuosi, ponteggi sospesi. 
La zona più povera, di edifici ad un solo piano, massimo due, spesso costruiti in lamiera, riluce d'un calore crudo, stantio, oltre la circonvallazione che cinge la capitale. Nel centro, gli investitori privati hanno tirato su senza ritegno stecche in calce e metallo, dall'aria vetusta nonostante la giovane età, per creare una sorta di nicchia laccata, vagamente protetta dal Rim asserragliato tutto intorno. Vagamente, dico, perchè nulla, nulla, si mantiene davvero sicuro dalle propaggini della realtà. Ai piedi dei palazzi si raggrumano mendicanti, ladri, rapitori, ambulanti, sporcizia, frotte di bambini, fogne scoperte, automobili decrepite. C'è una marea di guardie, di sorveglianza, ma è una marea pigra, piuttosto integrata col sistema mafioso e sfrenato di Maracay. 
Non potendo scomodare paradisi, lo chiamerei il purgatorio della speculazione. 
Accade sovente, quando un luogo diviene il ricettacolo di denaro da decuplicare, centuplicare, al di là della regola, del controllo. 
Un traffico notevole, sia terrestre che aereo, l'atmosfera inerte, farcita di profumi, di scarichi. 
Se c'è una parola funzionale a descrivere questo posto è: abusivismo. Edilizio, ma soprattutto esistenziale. Si respira sfruttamento palpabile, parassitismo; se allunghi l'orecchio avverti chiaramente i cocci della legalità scricchiolarti sotto i piedi. 
Eppure, Richleaf resta uno dei pianeti dell'Outer Rim in cui si vive... meglio? Dove se stai male vieni curato in strutture quasi dignitose. Certo, basta avere qualche dollaro da parte, un paio d'agganci. Non risulta eccessivamente difficoltoso. 
Il rhum, innanzi tutto. Rhum ovunque, ho allungato qualsiasi cosa. Le sigarette sono tremende, con valori al limite dell'omicidio premeditato. Procacciarsi la roba è relativamente semplice, basta dimostrare un minimo di testa per non imbattersi in sfacciate schifezze. 
Qualunque oggetto, acquistato nel quartiere centrale, costa quattro volte tanto rispetto ad Horyzon. Si presume che un Corer sia disposto a spendere uno sporposito pur di non fare 'shopping' in periferia. 
Non è un problema, per me: io ci abito in periferia, dovendo controllare il laboratorio di Hall Point. Non proprio nel degrado, certo. Forse. Passeggio con la weyland bene in vista, occhiali da sole, andatura da stronzo disinteressato, macchina fotografica in tracolla. Quando non lavoro, girovago. Sarà la guerra, sarà la mia propensione a sottovalutare i pericoli, la mia apatia, ma mi sento tranquillo in modo inquietante. 
La pensione non porta un nome (se ce l'ha, non lo conosco). Nemmeno il locale in cui gioco a poker tutte le sere porta un nome in fronte. Hanno cercato di derubarmi, di rapinarmi, di rapirmi, tutto per la mia dannata voce suadente, il mio inglese impeccabile e traditore. Alla fine, però, si sono adattati e affezionati. Devo essere un tipo poco raccomandabile; devo avere in viso qualcosa di losco e poco pulito, torbido. Simpatico. 
Non lo so. 
Stephen Slater suona troppo bene. 

Vendere le quote di famiglia per comprare un Avenger è stata l'idea illuminata d'un genio idiota. 
Sterling muoverà battaglia alle multiplanetarie.
Non posso restare un azionista di maggioranza della Ritter Water, mi pare evidente. 
C'è un orrendo conflitto d'interessi tra le mie tasche ed il mio letto. 
Quindi... 
Che si tengano le loro elemosine. 
Le loro porte aperte. 
Dovevo dimostrare a me stesso di non essere un sentimentale. Di essere tornato vuoto dalla guerra, tanto vuoto da poter accettare il compromesso tacito d'un eventuale, futuro, ritorno a casa. 
Bene. 
Io sono un sentimentale, invece. 
Un viziato sentimentale. 
Schifoso viziato sentimentale. 
E scelgo. 
Scelgo di bruciarmi migliaia e migliaia di dollari in modo sconsiderato. Stupido. 
È il solo modo che conosco per concretizzare l'affermazione 'i vostri soldi non hanno valore'. 
Un modo infantile, da ragazzino imbecille. Concordo. 
Però... Scelgo. E pagherei, pagherei per vedere la faccia di mio padre, di Elia. 
L'ho fatto per me, perché il mio equipaggio di adorabili criminali potrebbe averne bisogno, perché amo una rivoluzionaria alcolizzata a cui non interessa niente del mio cognome. Del vostro cognome. 
La mia esistenza... la mia esistenza è una ribellione silenziosa, inerte, nei confronti di...
Di... cosa. 
Herzog, Rachel. Non mi hanno mai forzato, mai imposto strade, nell'illusione d'una volontà esercitata a pieno. Non m'hanno condizionato, obbligato. Vero. Non c'era bisogno: ero obbligato, condizionato per natura, per nascita. Dal sistema. Dallo schema. Un fottuto zoo con gabbie chilometriche, di cui si scorda con piacere le sbarre. Potevo deragliare, potevo dimostrare, rivoltarmi, negarmi, fuggire, odiarli. Potevo. Erano sicuri sarei tornato comunque all'ovile, prima o poi. Eleazar sarebbe tornato, una volta adulto, una volta saggio, una volta cresciuto. E ne ero sicuro anche io, nonostante odiassi l'inevitabile con tutto me stesso. Lo sapevo e lo detestavo senza la facoltà di mutarlo, perché abitava in me il prototipo, il fantasma consapevole, il mostro cosciente della perfezione addomesticata, dell'aristocrazia ipocrita e brillante. Ero certo, condannato. Allora... 
Allora mi sono arruolato. Mi sono arruolato per sfuggire il destino, stroncare l'ineluttabile, squassare il moto inerziale. Trascinandomi in guerra, trascinandomi in trincea, trascinandomi tra le pietre di Blackrock, tra le strade di Hera, fino alla distruzione, all'alienazione, fino a rendermi socialmente irrecuperabile. 
Socialmente irrecuperabile. 
E dunque libero, in un contesto in cui la società è l'idolo venerando e terribile. 
Libero. 

Quanto è costata, questa libertà...

Ho bevuto troppo.
Troppo.

Riflettevo. Safeport. Assurdo. 
Eir viene da Safeport, io da Corona. 
Safeport, Corona. 
Io sono il prodotto d'un industriale tra i più ricchi del 'Verse e d'una nobile di antico sangue. Lei è figlia d'un contrabbandiere e d'una puttana. Io mi fregio di due lauree, lei ha imparato a scrivere soltanto qualche mese fa. Io sono sofisticato sino alla pazzia, lei è semplice sino alla violenza. Io ho avuto tutto, lei non ha avuto niente. 
Pare una favola idiota. 
Una favola idiota. 
Ridicola. 
Incredibile. 
Mi dà alla testa. 
Come una sorta di miracolo. Un miracolo. Ogni volta, la precarietà, la casualità che l'ha condotta qui soffoca il resto, l'ironia, la gratitudine, il desiderio, la paura, l'esitazione, la furia; persino l'amore; e non so... rimango a guardarla, a guardarla sino a stancarmi, a guardarla e a domandarmi se i miracoli facciano sentire così le persone. Se le facciano sentire così impreparate, fragili, pazzamente felici e terrorizzate. 
Un dio in cui Eir non crede, un dio che ho sempre ignorato per orgoglio, un'atea feroce, un feroce disilluso... Safeport, Corona, strade distanti migliaia di anni luce... se non fossi tanto dannatamente scettico, direi che qualcuno sta dando prova d'un potere incomprensibile. A noi. Attraverso noi.