martedì, maggio 15

Gravedigging

scritto e archiviato nella memoria dell'holodeck
[trasporto per Richleaf]



Il noto diviene abisso quanto l'ignoto e questi due precipizi, uno dove stanno le nostre colpe, l'altro dove sta la nostra attesa, confondono le loro irradiazioni. 


Evidentemente sto sbagliando qualcosa.
In senso esistenziale ed onnicomprensivo. Probabilmente dipende dalla mia inettitudine alla relazione, alla mia incoscienza priva di freni. Il mio ego amministra me ed il mondo in maniera diversa. Con Ritter, il cervello erige labirinti irrisolvibili tra le insenature dello spirito; se si tratta del mondo invece la mente si muove spianando trionfali autostrade.
Contro me stesso, vesto i panni del cinico sofista, del torero che dissangua la lotta e cela la spada. Con l'esterno indosso l'armatura del soldato, del cavaliere di torneo la cui ragione esplode nel muscolo animale.
Estenuare. Giustiziare.
Non sono un diplomatico. Traccio la retta da B a C con tutta l'intenzione di schiantare ostacoli, pur di non inventare curve. La gente s'attende altro. La gente sbaglia. Brillare in pianificazione non fa di me uno stratega; la tigre migliore a saltare nel cerchio di fuoco non è fiera del proprio primato.
Detesto le procedure tortuose.
I segreti imbastiti per viltà borghese.
La soluzione ad un problema non è quasi mai complessa. Complesso è un termine socialmente accettabile, ipocrita, per definire un dilemma la cui soluzione prevede procedure scomode o reputate dolorose.



Sono andato al ranch per parlare con Jack. Parlare: incazzarmi, più appropriato (per fortuna non c'era). Abbiamo seppellito un morto poche notti fa, seppellito sotto un accordo di collaborazione. Collaborare. Immagino d'aver un grave deficit lessicale nei confronti di questo verbo comunemente adoperato. Rooster mi ha chiesto di non coinvolgere Donna Winter nella vicenda, di non informarla più di quanto già sapesse. Donna Winter si è risentita nei miei confronti per averla citata a margine d'una conversazione coi suoi dichiarati 'colleghi', lamentando che da adesso in poi le sarebbe risultato impossibile impegnarsi nel districare la vicenda (povero Colin!).
 Una manciata di giorni dopo (ieri) scopro magicamente che la Almost Home ingaggia miss Winter per un'operazione di infiltrazione o spionaggio su Richleaf. Mi sono perso qualcosa?
Mi ritengono forse imbecille?
SONO UN IMBECILLE. Ad urtarmi per le lamentele di Donna, a fidarmi della schiettezza di Rooster. Nella mia mediocrità emotiva presumo sempre che la gente agisca similmente ad una reazione fisica; riportare il sistema in quiete col minor dispendio di energia, o comunque per la via più celere.
Non recrimino sul fatto che miss Winter si risenta chiamando in causa una mia presupposta scarsa professionalità. Affare suo. Ma trovo assurda l'indignazione coscientemente priva di contenuto, priva di fondamenta. Non recrimino sul fatto che Rooster abbia coinvolto una profiler esperta nell'indagine. Ma trovo triste il fatto che affidi un'operazione delicata al medesimo soggetto a cui IO dovevo tacere informazioni.
Ora...
Non mi interessano le loro dinamiche umane. Cosa le spinga a tali futili teatrini.
Vergil è in prigione. Dhemetra rischia seriamente la carica di dashi. Deliorra s'è vista costretta a stipare la Duchessa di cianfrusaglie illegali.
Tutto ciò per ottenere cosa?

Porto un rispetto sacrale alla lingua inglese. Non rivedrò le specifiche del termine 'collaborazione'. Preferisco cessare di collaborare, piuttosto.

Sfogarsi.
Gettare il sasso della colpa, ritirare la mano nella vergogna della compassione. Roona ascolta, quasi avesse trecento anni e una saggezza evangelica. Avevo bisogno che qualcuno mi ponesse domande essenziali, non sofisticate dal dubbio, dall'esperienza. Avevo bisogno d'una parete bianca su cui sfracellarmi con passione.
Insinuare.
Indovinare.
Perché ho chiesto l'inesprimibile? Perché l'ho messa in difficoltà?
Molti motivi.
1) Riconsegnare all'angelo una dimensione umana che mi rendesse praticabili i suoi consigli, almeno in potenza. Non sono in grado di esaudire i consigli degli 'angeli'.
2) Vendicare la mia debolezza, i miei cedimenti, portandola ad indebolirsi e a cedere. Meschino, ma funzionale.
3) Sopire l'interesse. Più che curiosità la definirei propensione a sapere. Ogni mistero pertinente al mondo esterno, quando s'affacci oltre le pendici della mia testa, deve essere sciolto. Dalle leggi fisiche, alle banalità quotidiane. Un conoscere fine a se medesimo, non interessato alla comunicazione, alla condivisione delle informazioni. Una propensione alla verità, alla linea retta B-C. Dubbio-domanda.
4) Premura. Forse.

Non mi interessa di Colin, non mi interessa di Maxwell. Provo indignazione? Sì, a livelli eminentemente cerebrali. Sarei un ipocrita ad arrogarmi il diritto di soffrire. A definirmi sofferente. Preferisco passare per stronzo ammettendo che dentro non si registrano scosse di sorta, se non qualche sporadica vibrazione quando rammento Eleria e la stanza sotto le scale. Con Ellen fu diverso. Ellen è il vuoto, il nome del mio vuoto. La sintesi dei colpi alla nuca elargiti senza cuore, senza preghiere, né coscienza. 

Non mi interessa delle multiplanetarie. Sono la progenie d'uno dei più fulgenti esempi di uomo arricchitosi su spalle sfruttate. L'azienda di mio padre aggioga un fiume dopo l'altro, cola dighe che assetano migliaia di ettari coltivabili affinché gli impiegati del Core possano godere dei dispenser d'acqua in ufficio. Quando cammini passo passo con questo marchio, questo peccato originario strisciante ai piedi del letto, impari facilmente la disillusione. Prima degli altri. Io conosco Herzog, conosco Elia. Nessuna rivoluzione cambierà le loro idee. Una rivoluzione più forte potrebbe pretendere le loro teste ed ottenerle, ma decapitare ogni singola testa d'una creatura tentacolare non ne sterilizza il seme. 
Non mi interessano i Grayskins. Rileggo Harken. Con le sole informazioni portate da Eir potrei, potremmo smantellare ogni teoria sui 'Grigi', sui 'Senza peso', mai scritta o pensata. Potremmo aprire dibattiti, ribaltare credenze, ipotesi. Eppure no. Perché? Per il puro gusto di vederci applauditi, di ubriacarci d'una fulminea celebrità? Si parlerebbe di Sterling, senza dubbio, la donna che conferma, reperti alla mano, d'aver visitato l'astronave madre d'un popolo semi-leggendario. E poi? La condivisione del sapere? Oltre un certo limite, nel mondo accademico si identifica come 'condivisione del sapere' la masturbazione mentale sacralizzata e tesa all'autoesaltazione. Una gara idiota a chi scopre prima l'utile, l'inutile, basta che sia nuovo. 
Non mi interessa l'idea. La causa. Puoi fare la guerra per gli altri ma non puoi pretendere che gli altri facciano la guerra per te. Indipendenza. Concretizziamo: un misto di giustizia,rivalsa, vendetta, volontà di evadere dallo sfruttamento economico, romanticismo. Romanticismo. Anime capaci di scaldarsi per così poco, con così poco combustibile ed una miccia tanto corta da sparire. Evadere lo sfruttamento: improbabile. Un sistema economicamente ipertrofico come il nostro non ha un punto nevralgico da intaccare. Potresti continuare in eterno ad affondargli stilettate nel cuore, scoprendo sul finire che ha un cuore capace di migrare dove vuole, semovente. Vendetta. Il prodotto lodevole di un egoismo, lo sfogo per mancanze passate o presunte tali, quadrare il cerchio dei rimorsi a furia di calci. Rivalsa. La guerra è finita e qualcuno indossa le insegne della vittoria; è ben più di un armistizio è la manifestazione fisica d'un ipostatico rapporto di forza. Giustizia. Differenti i tribunali, differenti i codici, assolti in marrone, condannati in blu, un rimpallo continuo, senza sosta, fino a scoprire lo scenario d'una giustizia drammaticamente assente, esplosa in migliaia di giustizie più piccole, che si servono delle bandiere per tenersi assieme, coese, prima del collasso. Non è questione di morti; non valuto in base ponderale, rovesciando sulla bilancia le vittime d'un conflitto trascinato al parossismo. No. Esistono elementi più importanti della vita in quanto tale. Gli scopi, le missioni, i legami. Accetto il sacrificio. Ma non accetto di ridicolizzarlo, di falsificarlo. Rasentiamo il grottesco: un David gracile ed emaciato, scaglia ghiaia contro un Golia obeso ed incapace di muoversi. Morire per questo, di qua, di là, è insensato. 

Lavoro su uno skyplex, sintetizzo droga. Contrabbando. 
Sono al di sopra della morale o non posseggo una morale. In entrambi i casi è soltanto un peso in meno da portare; non è vanità o tracotanza. Un dato di fatto. Se agisco nel bene e a beneficio delle persone a cui tengo o per un impulso privo di legge, di istruzioni. 
Nelle vene scorre un mostro capace di svegliarsi a comando, un mostro capace di squagliare la ragione e affilare i nervi. Ed è ironico quanto mi serva della mia maledizione, quanto collabori col buio a costo di sfiancarmi. Funziona. Perché di rabbia ne accumulo molta, in uno stillicidio perpetuo. Non conosco il prezzo delle mie performance bestiali, dei miei deliri onnipotenti. Chiedo al muscolo che mi batte in petto l'ennesimo salto mortale. Dopo la droga, il fumo, l'insonnia, i digiuni. 
Non mi sono mai odiato, almeno in modo scoperto. Non ho mai bandito crociate contro me stesso o intrapreso coscienti progetti di distruzione. Eppure, è alla distruzione che sono approdato. Mi domando come. Perché. 
Il vuoto, forse. 

Eir mi chiede di convivere.
Eir mi chiede di smettere con la morfina.
Pretese, pretese, pretese. Ed io, dal momento che la amo ed odio vederla piangere, vederla soffrire, vederla piegarsi sotto il peso dei miei probabili fallimenti le prometto lune impossibili da regalare. Posso darle più d'una speranza, d'una illusione? Non lo so. Come ho spiegato stanotte a Roona, fino a due mesi fa alla domanda avrei risposto NO. La dubitativa di adesso potrebbe derivare sia da un avanzamento del rapporto sia da una retrocessione della mia sincera obiettività. Entrambi scenari plausibili. È talmente insicura da scorgere epiloghi ovunque. Le basto arrabbiato un istante, per reputarmi irrimediabilmente distante e fustigarsi. Così, persino quando ho ragione della lite, mi sento in colpa per averla addestrata alla minaccia perenne della perdita, ad una mia inestinguibile instabilità.
Ho fatto di tutto, prima, per cacciarla dalla mia vita. Adesso che la voglio, la voglio sempre, contro la logica e il senso, mi ritrovo tra le braccia una creatura ferita ammaestrata alla tragedia.
Per questo sono tornato alla Monkey, stanotte. Si era imbottita d'alcol a tal punto da prendere fuoco per una scintilla. Il che pareva drammaticamente probabile considerando il suo tentativo di appiccare incendio al mio arrivo (non so cosa tentasse di bruciare). Dopo di me, aveva discusso con Quinn. L'ho sollevata, portata in cabina. In cabina, completamente imbevuta di bourbon, ha sfogato su di me gli ultimi brandelli d'una rabbia disperata, impazzita, simile ad un'aquila sfiancata da una gabbia per cardellini. Si è placata nel proprio caos, si è scusata cento volte. Poi, con dedizione crudele m'ha sbattuto in faccia come io resti l'unica cosa per cui rimane attaccata a se stessa.
Pensavo: non va bene. Questa è una frase che dovrei dirle io. È  una frase da me. Eir non può mischiare le carte così. Non può arrendersi. Un momento di crisi, lo so. Devo farmi muro. Specialmente se in coda al disastro si affastellano silenzi infrangibili. L'ho stesa sul letto, ci siamo baciati a lungo, in un mutismo sacrale. Mi dice 'ti amo' ogni volta con minor difficoltà e maggiore intensità.
Le ho confessato la mia confusione, che oramai sto meglio con lei che con me stesso. Come io rimanga la sola battaglia che non posso aiutarla a combattere.
Tranquilla.
Andrà tutto bene.
Non siamo persone diverse da quelle che hanno sfiancato l'alba su un prato di Greenfield, nell'ebrezza della luce, della resa, del bisogno. Non siamo diversi. Mi aggrappo a questa tale convinzione, mi aggrappo alla concretezza d'una vita confusa assieme.

Ricordo la prima volta, nella mia stanza di Hall Point. Le allucinazioni non erano ancora tornate, ero stato assunto da poco, trascorrevo le giornate tra turni ordinati, letture, morfina, nulla e quiete inquietante. Posso confessarlo a posteriori: quel bacio al Roadhouse fu uno scherzo, un esperimento tra anime scontrose, una sfida a chi si massacra meglio. A letto rammento vagamente la sua espressione meravigliosa, resa sincera dall'alcol: si intravedeva una certa esitazione, un'esitazione che la rendeva intrepida, disinteressata, tanto lei si adoperava per mascherarla. Ricordo che abbiamo riso nella splendida idiozia del vederci privi di responsabilità. Io mi fregiavo dell'indifferenza, lei della proprie cause di forza maggiore. Poi... Ci fu qualcosa, qualcosa nel modo in cui mi guardò ad un certo punto, qualcosa di assurdo, qualcosa di simile a un riconoscimento, un ritorno, di simile ad un 'oh, ma sei tu'. 
Il disastro è cominciato nei suoi occhi. 
Coi suoi occhi. 



Sei in una cantina dove è prigioniera una stella