venerdì, agosto 24

Wind in the wires (2)


Rockfort, Hera, tre ore dall'arrivo.

Percorre la rampa di discesa, il peso del corpo ed il peso dell'invisibile percuotono la passerella attraverso le suole degli anfibi sdruciti. Un materiale impalpabile, intangibile, pressante come la sostanza oscura che compone silenziosamente gli universi. Come i ricordi, i dubbi, l'intelaiatura segreta di quello che siamo. La camicia sbracciata palpita sotto una fiacca sferzata di vento polveroso, lo scheletro scintillante di Rockfort giace simile ad un avanzo di fronte ai suoi occhi affinati dalla stanchezza e dalla luce scialba del pomeriggio. Rabbrividisce, la temperatura è più bassa della media. Più bassa di quella impostata per la stiva carico della Laetitia. Un ghigno amaro saluta il medesimo errore compiuto reiterate volte, anche nel passato. Solleva il mento, la coscienza inciampa sull'orizzonte offuscato. Da qui, salvo le ciminiere abbattute ed una massa modesta di baracche, non si intravede nient'altro. La nebbia avanza con pudore. Un pudore che in guerra fu spietatezza o benedizione a momenti alterni. Avanzando, la tracolla a segargli la spalla magra, si inoltra in un profumo familiare: ferraglia al macero, cenere, terra battuta. Rivolge il naso al cielo, nella carrellata d'osservazione. Un grigio sgombro, uniforme, variegato di nubi basse; tre luci rosse, disposte ai vertici d'un triangolo, in sospensione tra i nembi: certi giorni era tutto quello che avevi per intuire un Raptor a volo radente. Tre luci: male. I soldati avevano preso a mimarle con le dita, per schernire la paura, richiamando col gesto qualcosa di molto più piacevole da rammentare.
- Ritter? - Una voce pulita, profonda, lo riconduce al presente. Eleazar non si ferma, appoggia i piedi al suolo, faccia a faccia con l'interlocutore. Max Bowie è lì, dietro le lenti crepate d'un paio di occhiali, un vecchio giubbotto militare alleato, privato dei distintivi e palesemente rimediato. Logori i jeans, stivali sporchi. Eleazar sa che si tratta di Max prima delle presentazioni. Riconosce quelli della propria specie. 
- Bowie? - 
- Bentornato- Il medico annuisce, scartando un sorriso schietto e pulito. L'accento del Rim, d'un luogo non definibile su due piedi, risuona chiaro e composto. L'accento di qualcuno affezionato a casa, affezionato all'origine, mitigato dalla cultura.
Si stringono la mano. Alle loro spalle s'anima un movimento rapido di scarico merci, presidiato da diversi uomini armati, con equipaggiamenti obsoleti. Ed i coats addosso. 
Alcuni bambini spuntano dagli anfratti cenciosi della realtà, addensandosi attorno ai due, in fretta arruffata, inciampandosi addosso, simili a formiche senza antenne. Compongono un cerchio, la cui forza centripeta è animata dalla curiosità insaziabile, il cui sprone centrifugo ha le specifiche della diffidenza ritrosa. La voce di Max, la confidenza che dimostra allo sconosciuto, spronano i bambini a stringere il perimetro, costringendo Bowie a chinarsi, a minacciarli bonariamente per disperderli. 
- Come è andato il viaggio?- Apostrofa Ritter, controllando per abitudine, senza troppa attenzione, dove si infileranno i ragazzini. Il profilo di Max si staglia sullo sfondo piatto, il cielo e il muro in metallo condividono la stessa tinta smorta, il contorno del volto dell'uomo sortisce l'effetto d'una acquaforte. 
- Andato... - 
- Scusa il disagio. Purtroppo riusciamo ad organizzare solamente un cargo ogni cinque/ sei mesi, tra Marauders, grigi, contrabbandieri e... - Bowie sospira, sfiatando per sfogare una pesantezza a cui, oramai è evidentemente avvezzo – destino avverso? - 
Eleazar accende una sigaretta, le guance sbarbate si colorano di un'ombra smussata, inquinata dalla luce insipida. Si sono fermati presso un basso edificio in lamiera, che li scherma parzialmente dal vento, gemendo sui giunti di congiunzione. 
- Non importa. Sono abituato - 
Max ha l'espressione di un uomo che non trascura mai una sillaba. Stavolta, però, è troppo preso dalla cicca di Ritter, per tenere dietro al discorso precedente con dignità. 
- Con quelle – Indica il pacchetto nella tasca del collega, ridendo. Una volta di denti bianchi gli accende il viso segnato da rughe piacevoli alla vista, espressive – Con quelle ti farai molti amici. O molti nemici, dipende da te - 
- Dipende da me? Allora abbiamo un problema – Il tiro che segue la replica è predace, ma languido. Il tiro segue la replica e precede l'offerta d'un filtro a Bowie, pacchetto alla mano - E sono arrivato da appena due ore - 
Max ride di nuovo, spolverando la giacca in un gesto inconsistente, prima di estrarre un vecchio radiotrasmettitore gracchiante. Rimane in ascolto alcuni secondi, poi torna all'interlocutore. Accetta l'offerta di buon grado. Lo squadra in un'occhiata sincera, scoperta. Lo soppesa con la forza cortese del fachiro sui chiodi, perfettamente a proprio agio nell'esercizio di un diritto. Misura le dimensioni della sacca, confronta l'immagine di Eleazar con alcuni, misteriosi, contenuti mentali. 
Eleazar si accomoda nelle larghe maglie dell'altrui studio, privo di disagio. È impegnato ad aleggiare, un battito di ciglia dopo l'altro, sul panorama circostante. A recuperare, nel buio, il bandolo rosso dei ricordi. 
- …. prossimo ti riesce bene - 
- Cosa, scusa? - Max ha parlato fuori dalle frequenze della concentrazione. Il discorso giunge come uno sfrigolare, un'interferenza. Ritter si trascina un filo di fumo tra i denti, voltandosi, per guardare il collega in modo pigramente interrogativo. 
- Dicevo: indisporre il prossimo ti riesce bene - 
Le sopracciglia di Eleazar si inarcano col sollevarsi ulteriore delle domande. 
Max agita i palmi, sbuffando ed inumidendo di saliva il filtro della sigaretta. 
- Non fraintendermi. Intendevo... - Si strofina la testa scura, con calma, scompigliando il taglio militare – intendevo: ho letto... e riletto... insomma le tue ricerche. Pubblicazioni, eccetera. La tesi di specializzazione... Ritter, la giovane promessa della medicina militante – Non c'è alcun sarcasmo nel tono, probabile derivi dagli oltre dieci anni di differenza tra loro (che inducono Max a ritenerlo eccessivamente giovane), dal rispetto stupito, dalla curiosità. 
- Ah... secoli fa - Ritter accenna una smorfia sorniona, imbevuta di distrazione. 
- Erano lavori … importanti – Bowie gli fa cenno di proseguire, lanciando saltuariamente sguardi di saluto ad occhi poco propensi a coglierli, nonostante le buone intenzioni. Si vedono più nuche che facce, molte teste basse – Sono lavori importanti. Condivisibili. E... aggressivi. Ne discutevamo molto– Max annuisce, scarta con le pupille rapide sull'uomo che gli cammina a fianco. Silenzioso, d'una trasandata delicatezza, un'apatia spavalda, quasi assente, sotto i ciuffi di capelli troppo lunghi, dietro una barba di pochi giorni e le occhiaie di secoli. Probabile Max stenti a far collimare i frammenti. Collegare gli elementi. 
- Già – Eleazar spedisce le iridi verdi a specchiare una qualsiasi lontananza abbastanza dilatata da poter contenere un ironico slancio interiore, a poter ammortizzare il sedimento d'amarezza sul fondo delle proprie soluzioni cerebrali. 
- Larousse... Vincent. Mi ha parlato molto di te - 
- È una sua deprecabile abitudine - 
Entrambi rallentano, per masticare il sarcasmo leggero, per lasciar passare alcuni Coats e un numero imprecisato di individui piegati in indumenti rimediati. Le persone in giro non sono poche, Ritter se ne rende conto; ma paiono appiattite, condannate a qualche movenza di contorno. Dunque: senza spessore. Non occupano spazio. Un ingranaggio inutile che s'avvita sul proprio asse storto, i figuranti d'un carillon ammutolito. Crocchi di individui si infoltiscono sotto le verande, accendendo fuochi in fustini mutilati, decapitati. Qualcuno fa bollire della brodaglia, altri si affannano con modestia in giro, tornano imbracciando latte di cibo in scatola. Ogni tanto emerge dalla calca una canna di fucile. La situazione ricorda un campo profughi. Profughi accampati a margine degli eventi, del tempo.
- Non sembri preoccupato da quello che potrebbe avermi detto- 
- Dovrei? - 
- No...No. In effetti, nel bene e nel male... tutto considerato, sei la persona giusta al posto giusto- 
- Mi capita raramente, lo confesso - 
- È il privilegio d'aver toccato il fondo. Difficilmente andrà peggio – Bowie allarga un braccio, scostando una tenda immaginaria, sulla povertà spudorata del mondo circostante. Lo fa con tranquillità, senza vergogna. 
- Mi sottovaluti -
Gettano il mozzicone di sigaretta contemporaneamente, premettendo al silenzio di scorrere indisturbato nello spazio d'una risata addentata e lasciata a metà. 

Eleazar si stende sul materasso, un materasso steso a pelle al pavimento. Il container in cui è alloggiato sta immediatamente dietro a quello di Bowie. La sacca rigurgita qualche abito, il tech reader. La macchina fotografica. La weyland. Un'unità di memoria. Siringhe, vecchia maniera, vecchia scuola. Una busta color carta zucchero. Allunga le dita, una mossa spossata, quasi protendesse le nocche in un assurdo baciamano. Ciondola in qualche tentativo, a caso, prima di raggiungere l'obiettivo. C'è Sterling in quelle fotografie; solo Sterling. Salvo una, dove sono assieme. La sola. Eir che dorme, che sorride. Che ride. Crucciata. Stupita. Nuda. Annidata in una camicia troppo grande. Spettinata. Fuma. Il disordine. La legge selvaggia. L'innocenza. La forza. Nell'erba alta di Greenfield. Sulla spiaggia fuori Capital City. Nello skyplex, l'appartamento su Horyzon. Safeport.
Pensa a Jack.
Pensa a Roona.
A Neville.
A Quinn.
A Ratliff.
Poi è la volta della dose; dovrà fare economia, nonostante abbia speso in switch e blast qualcosa come uno stipendio mensile. L'etere, un brodo di cenere e umidità, smania ai bordi dello sguardo, agitato dal solletico crudele d'una visione in arrivo. Ritter inspira, espira. Nello spazio tra l'uno e l'altro gesto ha caricato l'ago. E ricevuto il primo ospite. 
Fuori, Hera, si dilata sino a scomparire.