martedì, maggio 1

From her to eternity


scritto su vari fogli sparsi, senza collocazione né data


Il 'Verse, di recente, vomita misteri di continuo. Letteralmente.
I Grayskins, i draghi. Credo di stimolare le confidenze delle persone. È un' incognita, per me, come accada. Seriamente. Probabilmente perché sono un tipo silenzioso e poco attaccato alle pubbliche relazioni.
Lydia mi stupisce ogni volta. Si fida a tal punto e mi domando cosa ho combinato per meritarlo. Oltre ubriacarla, ubriacarmi e ricordarle i periodi più brutti dell'esistenza. Ci incontriamo così poco. Serve che si ustioni o si guadagni una pallottola. Poco è comunque qualcosa. È comunque meglio di niente.

Donna Winter ed io non siamo stati mai in così stretti rapporti lavorativi come adesso che s'è affrancata da Hall Point. La aiuteremo col trasloco, noi della Monkey. In oltre ha deciso di coinvolgermi in quel progetto spettacolare di organizzazione culturale. Se ho una debolezza scoperta, sono i libri. Sino alla cleptomania. Ovviamente sarà un segreto. Segreto, ancora. Vuole donare un libro di Wilde ad una biblioteca/museo di Corona. Sono perplesso, ma ammetto di pormi in modo parziale di fronte alle mie origini. La Parker Liang Library costituisce il non plus ultra. Istituita una cinquantina d'anni fa, dalla fondazione Rebbecca Parker Liang, ospita centinaia di opere di pregio, per lo più dal 2100 in poi. In poche parole: una fetta cospicua dell'arte del 'Verse colonizzato. Suppongo sia una delle mecenate più attive della nostra storia: esistono diversi Parker Liang Museum oltre quello di Corona. New London, Berishan, Elèria, Xhinion, Horyzon e persino Koroleva. Il museo di Koroleva sarebbe da vedere, prima o poi, se non altro per l'imbarazzante quantità di visionisti russi che raccoglie. Sembra assurdo pensare come un centinaio d'anni fa Koroleva raccogliesse l'avanguardia artistica del sistema multisolare.
Non vado ad una mostra da epoche immemori. Dovrei rimediare.
L'ultima fu con Will e la sua ragazza-per-sempre di allora (durò un paio di settimane). Era cinese, molto carina e decisamente scema. Nonostante dovessi fingere il contrario per non urtarne la sensibilità. Studiava 'discipline artistiche', mi pare. Aveva dei gusti orrendi in fatto di tutto. Ci siamo divertiti, quel pomeriggio. Credo di conservare persino delle foto. Forse. Pessima memoria.

La lettera di Presta.
Non so. All'inizio ero furioso. Il modo in cui mi imponeva di prendere visione del loro mondo, delle loro idee, del loro credo. Quasi fossi un imbecille viziato a cui si deve spiegare come gira l'universo. Quasi che avessi bisogno delle sue delucidazioni per recepire seriamente le implicazioni di una relazione con una donna di Safeport, che milita in un gruppo insurrezionale, si scola minimo una bottiglia di whisky al giorno e ha imparato a leggere/scrivere da pochi mesi. Con un meccanico dell' Outer Rim. Non è un gioco, Eir. Tra le righe, per quanto m'abbia consigliato di non cercarvi nulla, c'era questo. Ero furioso.
Poi, riflettendo, ho compreso quanto avesse ragione. Ci tengo ad Eir. Di più: sono innamorato di lei. Eppure, quanto lo dimostro? Non lo dimostro affatto. La spiazzo ogni volta coi miei ragionamenti contorti, coi miei silenzi intrigati, le mie emozioni sibilline, astruse, anomale. Ho dovuto dirglielo, ho dovuto dirmelo. Ammetterlo: non mi basta più. Sono stanco di averla tre ore ogni dieci giorni, tre ore passate a letto a sfiancarsi, poi sparire per settimane, settimane in cui lei si macera di nostalgia ed io mi uccido di dubbi.
Non mi basta più. Non so esattamente cosa significhi. Cosa comporti. So che al di là delle parole (ci muoviamo sempre, noi, oltre il linguaggio, senza che il linguaggio conti) non tollero più la sua assenza prolungata, le fughe, i rifugi facili. Non voglio sia facile, esigo sia difficile. Sì. Voglio tenere la responsabilità del suo universo tra le dita, tra le braccia, sulle spalle, nonostane tutto l'inaccettabile. In virtù di ciò che non accetto. E' rimasta. Sono rimaso anche io. Ho smesso di avere paura, di pormi domande. Dal profondo di questa condanna, non mi dibatto più in uno sciocco desiderio di restaurazione. Dimentico l'esistenza d'un futuro ingombrante, che esige patti e risposte. La seduzione della bellezza, della felicità, rischiano di coinvolgere la mia logica, il raziocinio, tramutandosi in progetti. In speranze. Non posso. Preferisco tenere la mente a ragguardevole distanza da quest'isola di scompenso, di meraviglia, su cui mi trovo adesso. Preferisco. Niente promesse, ma prove. Prove vive, giorno per giorno. Nel caso quel giorno fosse l'ultimo. O il primo d'una lunga serie.

Le schiaccio il viso tra il collo e la spalla, le tengo le mani sui fianchi; è sveglia, sono sveglio. Non diciamo niente; chiudo gli occhi, spingo le labbra tra i capelli ricci, dietro l'orecchio. Strofino la pelle sul suo calore, quasi fosse la prima volta. Se immagino che qualcun altro ha sperimentato le stesse cose, sullo stesso corpo, fatico a controllare la rabbia. E' un sentimento mai avvertito prima. Mi destabilizza. Eir ha trentatre anni: adulta, indipendente, bella in maniera imbarazzante. Passionale sino al dolore fisico. Non potrei pretendere d'esser stato l'unico ad averla. Eir rassicura: come adesso, non le è successo mai. Forte come adesso. Importante come adesso. Eppure sarà accaduto, fosse stata anche una notte buttata a caso nel calendario della vita, per ammazzare la noia ed il bisogno. Se ci penso, sto male. Quando medito sul codazzo insulso delle  mie donne senza importanza, mi interrogo sul modo in cui Eir riesca ad affrontarlo. Davvero.
M'ha parlato di quell'uomo, Mathias. Del fatto che se ne sia andato, d'un tratto, solo pochi mesi prima che io la conoscessi. Mi chiedo cosa avrei fatto se lui fosse rimasto. Meglio non rispondermi.
Mi chiedo cosa avrebbe fatto Eir, se lui fosse rimasto. Meglio non rispondermi, anche stavolta.

Incontrarsi con il capitano Rooster ha sempre risvolti particolari. Sono a Capital City con la Monkey da qualche giorno, dormo in albergo o sulla nave (dove ho mollato un irrequieto Montezuma, che poco s'armonizza con la scimmia di Neville). Evito cautamente di tornare in appartamento.
Abbiamo discusso del buio in quanto minaccia ancestrale, istintuale, temuta dall'uomo per imprinting naturale; uno scriglo di mostri, di pericoli, nella società precedente alla civilizzazione. Quando ancora eravamo prede e non predatori. Più che procediamo coi colloqui, più che sono dubbiosa sulla possibilità di poterla aiutare sul serio; in compenso, capita di comprendere cosa di me che non avevo mai preso in considerazione.

Se il suo spettro è la sconfitta, l'impotenza, il mio è stato il vuoto. 
Il vuoto, sì. Il vuoto mi ha reso folle, m'ha ingoiato sino al ricovero. 

Il vuoto, sul campo di battaglia. Ben presto scopri che, per rimanere vivi, i soldati riempiono di materia il loro ideale. Alcuni nemmeno lo contemplano. Combattono per una persona, per la famiglia, per un ettaro di terra, per un ricordo, una promessa, una stanza, una città. Fotografie, racconti, lettere, immagini, messaggi, feticci. L'idea è l'odore delle cose concrete scaldate nell'amore, nell'affetto. 
Per me, no. Mi arruolai seguendo una sorta di sottofondo utopico del tutto cerebrale.

Durante la notte, sotto i cieli stellati e rigati di fumo ferito, bollente, di fuochi improvvisi e affannati, avevo il vuoto a tenermi compagnia. Nulla, nessuno per cui tornare. Il vuoto dentro che mi congelava l'anima impedendole di prendere coscienza della solitudine. 
Non ne soffrivo. Nemmeno me ne rendevo conto. Le mansioni d'un medico al fronte atrofizzano lo spirito, l'esigenza di sopravvivere e far sopravvivere sterilizza l'emotività. 


In fondo, anche prima della guerra non ero diverso: abituato a vivermi per inerzia in punta di cervello. Isolato in una monade di intelligenza grigia e fredda. Serenity, le trincee, hanno incrinato qualcosa.
Qualcosa che ha resistito senza scossoni sino alla fine e s'è rotto quando sono tornato a casa. In ogni drammatica conseguenza. La vita vissuta sino a quel giorno, una vita vissuta a diversi metri dal cuore, mi presentava il conto sotto forma di mostri, di incubi, di ira immotivata. Pagavo pegno in ritardo, saldavo i debiti per tutte le volte in cui m'ero illuso di poter esistere al di là, al di sopra del corpo del mondo, infilandomi tra le sue viscere coi miei guanti verdi senza sporcarmi. 

Ora sarebbe diverso.  

Tutto diverso.