mercoledì, agosto 22

Wind in the wires (1)



Luglio, 2514 (nave cargo Laetitia)

Andato. Me ne sono andato. 
Ho lasciato il cuore in mano alla vita ed i mostri hanno fatto quello che sanno fare meglio: infilarsi al suo posto, nel petto, accomodandosi nella cattività vellutata della gabbia toracica. 
Me ne sono andato. Il carcere. McCorvin. La settimana trascorsa a meno d'un metro da Eir, sempre. Le minacce di mio padre. La presenza di mia madre. Le responsabilità. Le promesse. Il matrimonio. 
Una volta, dopo un delirio allucinatorio, è stato il freddo della weyland tra le linee del palmo a strattonare la coscienza, a trascinarla a se stessa. E l'odore chimico di Xentio. Non ricordo il grilletto aggredito, non ricordo ragioni. Mi sono alzato dal pavimento seguendo una striscia di sangue annodata alla mano destra col doppio filo d'una ferita stretta, fresca. L'appartamento, un caos violento. Ho sparato, nella determinazione cinica, istintiva, del delirio. Ho sparato dentro un incubo, aggredendo il mondo reale, là fuori. Progressivamente le visioni si sono mescolate alle angosce notturne, le mura della stanza hanno iniziato a vomitare palcoscenici macabri per le pantomime emotive del mio cervello disfatto. 
So perché. La dottoressa Caprow lo pronosticò con disperata esattezza; più ti lasci urtare dall'esistenza, più ti esponi ad essa, più ti disarmi contro il grande nemico, quello in sospeso. Il sistema era ignorare le domande, sigillare i fantasmi nell'armadio, schiacciando loro le dita tra le ante sino a spezzarle. I fantasmi pretesero l'anima in cambio della pace. Il patto: mi lasciarono vivere, a condizione che vivessi senza vita. Ho tradito l'accordo, spudoratamente. Sono sempre stato un buon bugiardo ed un discreto traditore.
Ma il passato è un avversario potente ed io combatto in campo ostile. 
Chi non ha ferite sulla mano può, con quella mano, toccare il veleno. Il veleno non penetra dove non esiste ferita. Penetra dove la pelle cede. 
I tremori, i timori, i deliri. Gli attrezzi del mio inconscio scatenato. Quegli atti di pazzia sonnambula, inconsapevole, una sbornia di dolore, di rabbia, che ti lascia in grembo morte e disastro senza resoconti e biglietti di scuse. 
Non potevo restare e metterla in pericolo. Per la seconda volta, da sempre, ho qualcosa, qualcuno da perdere. Stavolta non lo perderò. Sposarla, dirle che la amo, prometterle il futuro... sono parole, belle parole, ma soltanto una somma casuale di ossigeno e labbra. Quello che conta è la presenza, è la persona. Non mi lascerò sbranare ed annientare, non la lascerò sola in mezzo a se stessa.  
Non dopo Roger. 
Non dopo suo padre. 
Ho messo in sospeso troppe questioni. Tutte le fottute questioni. 
È il momento di risolverle, di saldare i conti; è il momento di strozzare i problemi, prima che i problemi vengano alle porte della felicità a riscuotere debiti di sangue, prendendosi in pegno il presente. 
Durante gli interrogatori in prigione, tra le sbarre e gli impulsi elettrici, soffocato da stracci imbevuti di acqua e sadismo, mi sono reso conto della regola fondamentale: in guerra non esisteva niente per cui tornare, per cui morire. Adesso esiste. Non sono in grado di toglierti nulla, se nulla ti appartiene, se hai già affidato tutto a qualcun altro. Io l'ho affidato ad Eir. 
Ha ragione lei. I confini li decido io, li incido io e li incido nella sua carne. Sono io a srotolare il filo spinato attorno alle prospettive, attorno alle speranze. La proteggo e proteggendola la uccido. 
Quella sera alla quercia mi urlò che le avevo dato tutto, ma m'ero dimenticato di darle la vita. 
No, non l'avevo dimenticato. Semplicemente non mi appartiene più, non m'apparteneva. La vita l'ho lasciata sul campo di battaglia, l'ho persa in trincea, come tanti altri, tanti anni fa. 
Ma è giunto il momento di recuperarla. 
Vado a riprendermela. 
Torno su Hera. 
Torno a Serenity. 

Sarebbe un bel regalo di nozze.

Capire. L'uomo che sono, che non so di essere. Lasciare l'uomo che non so di essere dimostrare al caso, al destino, quanto sia migliore dell'uomo che sono stato, che volevo diventare. Prima. 
Armati di coraggio, metti in riga il cuore, il corpo, la testa, mettili in gioco. 
Guarisci, cristo. 
Guarisci. 
Lasciati guarire. 
Datti una possibilità.



'Salve Eleazar, sono Vincent. Ho letto sui giornali la vicenda del rapimento, che per affetto evito di commentare. Mia moglie continua a giustificarti e vorrei trovare la forza, la convinzione, per poterti giustificare anche io. Sei come un figlio per me e Simone, ed il principale responsabile del mio progressivo incanutire. Ho saputo anche dei farmaci 'atterrati' su Blackrock; mi sto seriamente impegnando a collegare le cose, persuadendomi se non al perdono, alla comprensione. Ragazzo mio, spero vivamente tu non ti sia messo a delinquere per fare fronte ai tuoi problemi, ai tuoi avvilenti bisogni, ai tuoi vizi tremendi (scusa, non riesco a parlarti meno francamente). Alexandra mi ha contattato per illustrarmi i progetti di tuo padre, progetti che, a dire della signorina Keynard sono ogni giorno maggiormente concreti e pressanti. Non puoi scappare in eterno dalle tue responsabilità e dai tuoi problemi, ma risolverli per coercizione non funzionerebbe. Dubito che mister Ritter sia animato da filantropiche intenzioni di recupero, oltre tutto. Condanno i tuoi gesti, li condanno perché sono i sintomi d'uno sperpero doloroso di genio e brillantezza. Condanno i tuoi gesti, ma non condanno te, perchè conosco la tua malattia, le tue dipendenze, conoscevo William e la tua analista. Ti parlerò con franchezza: devi liberarti di questa furia, devi restituirti a te stesso. Ricorda cosa dice il Maestro, cosa risuona tra le pareti del tempio: 'Non sarete puniti per la vostra rabbia, ma dalla vostra rabbia'. Eleazar, ascolta. Se tu volessi allontanarti per un poco, per far calmare le acque, per riflettere, per distaccarti dalla realtà violenta in cui ti perdi ogni giorno, se tu volessi isolarti, ritrovarti, è il momento giusto; ed io posseggo il giusto contatto. Max Bowie militava nei Ribbons, tuttavia dubito tu lo conosca; qualche mese fa scrisse domandando se conoscevo un chirurgo da campo con competenze da chimico, disposto a viaggiare qualche parsec lontano da casa. Gli serve un dottore che dimostri il coraggio e l'abilità di un'intera equipe sommata assieme. Sai di essere quella persona. La persona giusta al momento giusto. Sai di essere quella persona, devi solo ricordarlo. O scoprirlo. Ho riletto le nostre ricerche con commozione crescente. 'Vinci pure mille volte mille uomini in battaglia: solo chi vince se stesso è il guerriero più grande'. Allego alla presente il contatto di Bowie. Non ne conosco l'ubicazione: Max riesce a fruire di comunicazioni decenti solo il 13 di ogni mese. Due giorni per riflettere sono sufficienti. Sii in pace e bada a te stesso, ti prego. Un saluto da Simone e da mia figlia.   Vicent Larousse'




Rockfort, Hera. Tredici giorni dall'arrivo. 
Le pareti del pozzo sono ripide, scivolose come il manto d'un rettile sudato ed ostile. La corda stretta sotto le costole addenta lo sterno e tende agguati ad ogni respiro, sgretolato nell'aria secca dell'estate; gli addominali contratti, gli incisivi appesi al labbro per ammaestrare lo sforzo. Il nastro bianco, attorno al polso sinistro, è umido di fatica. Come la camicia chiara, stropicciata di fango in più punti, completamente sbottonata. I respiri risuonano nel torace, nel budello di pietra, quasi si trattasse di cavità sincronizzate, di vasi comunicanti. Eleazar ingoia una bestemmia, riempiendo la quinta provetta, posta sotto una stalattite che lacrima piano. Ovviamente, la quinta provetta non entra nelle tasche dei jeans, Ritter la addenta assieme ad un'ulteriore imprecazione, arrischiando lo sguardo verso il sole velato in superficie, il contenitore strozzato fra le labbra asciutte. Prende fiato, per un istante si sente in equilibrio al centro del mondo, si sente un punteruolo conficcato nel marmo. Strofina la fronte lucida, madida di un vuoto mentale squagliato dal lavoro incessante; aggredisce il canapo a mani nude. Puntella le suole sul muro argilloso ed inizia a risalire. I muscoli delle braccia scattano, in un conato energico, il cui contraccolpo a cerchi concentrici strattona le palpebre e le serra. Il volto si inarca in una stizza fisica, coperto da una barba poco notevole ma decisamente più folta del solito. 
Eleazar impiega poco tempo a farsi sputare fuori dalla crosta, sul suolo polveroso di Rockfort. 
Rockfort, l'ombra del proprio nome. Mentre si solleva in piedi, oltre una manciata di container affastellati, definiti 'case' in un tenero incantesimo linguistico, ritrova per l'ennesima volta i profili delle ciminiere morte, torri in metallo rosicchiate, erose dalle bombe, scheletri di alberi svuotati dal grande incendio. Rockfort, durante il conflitto, venne rasa al suolo totalmente, trovandosi a presidiare suo malgrado l'estremità meridionale della valle. Se lo ricorda, Ritter. Se lo ricordano tutti quelli che c'erano. Adesso non rimane che una macchia di detriti e qualche pilone di cemento slanciato nell'atmosfera grigia, a sostenere un cielo spesso grondante di nuvole. Presso la carcassa di quella che fu una città mediamente popolata, vivono accampati tra le lamiere quelli che furono cittadini mediamente felici. Si lotta per la sopravvivenza dove prima si lottava per un parcheggio, una contravvenzione, un torto sentimentale, un licenziamento. C'è perennemente sentore di ruggine, nell'aria: la pioggia frequente fiacca il metallo, lo corrompe, lo umilia,  cavandone il medesimo odore del sangue fresco. La gelida ironia delle cose. In quell'incrostazione ossidata in cui l'esistenza prosegue, paradossalmente, ricordando all'uomo che la ricerca del senso è un lusso borghese, un prodotto del benessere, che all'essere umano, in forma base, basta la cruda sussistenza. Senza ulteriori prospettive.
Eleazar sta per procurarsi i favori di una sigaretta, l'ennesima (ha smesso di razionarle, non ne è capace), quando da un angolo cieco spunta un ragazzino, lanciato in corsa dentro a scarpe tre numeri in eccesso. Gli individui impegnati attorno al pozzo lo scrutano, senza sorpresa, o con quella sorpresa senza sopresa che accompagna le espressioni di chi oramai è avvezzo a stupirsi solo per le buone notizie. 
- Dottore! Dottore! 
Ritter si blocca, masticando tabacco di pessima lega e pessimi presentimenti. Ma il suo lavoro, oltre sfasciarsi le braccia dietro a progetti disperati, è proprio quello di presenziare ai pessimi presentimenti. 
- Cosa c'è? 
- Dottore... Dottore.... - Il ragazzino indica un punto casuale alle proprie spalle, per rendere l'argomentazione sufficientemente convincente - un... un... un...- avrà tredici, quattordici anni ed un incarico eroico da portare a termine. Ingoia, sconfigge il fiatone ed è pronto, col proprio accento pastoso - un mio amico... fuori dal confine... gli avevo detto di non recuperare la palla... io... anche gli altri... ma era l'ultima, non ne abbiamo un'altra e.. un'altra palla... infatti Jacob ha risposto proprio così, 'non ne abbiamo un'altra'...no...ecco... poi c'è stato lo... lo... scoppio...- Butta le pupille sui piedi, rammaricato di non trovare una parola migliore. A quell'età la morte non esiste, esiste la vergogna. O il rimprovero.
- Dov'è successo? - Il tono di Ritter è perentorio, mentre sfila le fiale di tasca e le consegna ad uno dei presenti, presumibilmente un conoscente, un collaboratore. In tutto ciò non grazia il ragazzino del proprio sguardo pieno di spine verdi, affilate dall'attitudine al massacro morbido. Sfila la cicca dalle labbra, la infila dietro l'orecchio - Dov'è? - 
- ... lo ... lo hanno portato... in infermeria ma... ma il dottor Bowie è... mi hanno detto di cercarti qui... - 
- Andiamo - Eleazar ordina, più che consigliare. Agisce, prima di consolare. E se difetta in socialità, recupera in rapidità e determinazione. Infila la pistola nel retro dei pantaloni. Aggancia i bottoni della camicia strada facendo, ad ogni asola sgrana un pensiero, una strategia, una controffensiva che suona terribilmente simile ad una preghiera. Una contrattazione con l'invisibile. 

- Una frag?- 
- Una frag. Inesplosa - 
Un temporale marcia sul carapace metallico dell'infermeria. L'infermeria non si distingue affatto dal resto del gregge edilizio di Rockfort, della nuova Rockfort: una serie di container l'uno accanto all'altro; l'acqua corrente è garantita da alcuni serbatoi piazzati sui tetti, fatti accuratamente bollire per ovviare all'effetto delle piogge acide. In principio qualcuno tentò di chiamarla 'ospedale', ma l'incantesimo linguistico, altrove così utile, non contempla certi improbabili miracoli. 
- Dove? - 
- Solito posto. Fuori dal perimetro, ad est - 
Nessuno esterna commenti esasperati, commenti che quel 'solito' dovrebbe condursi in coda in un disperato automatismo. Ritter chiude una parentesi: la sigaretta riposta prima dell'intervento, la sta fumando adesso. Le maniche della camicia sono arrotolate sino ai gomiti; la stoffa, la pelle rilucono le chiarore nebbioso del crepuscolo, screziate di rosso. Il rosso arriva a imbrattare la barba e parte della guancia sinistra, si incrosta sotto le unghie in vistose mezze lune amaranto. Scruta di fronte a sé, i bagliori traballanti delle lanterne in grembo alla baracche, al di là delle finestre. 
Bowie è un individuo asciutto, di bassa statura, una di quelle persone che il destino ha fornito d'un volto su cui giace scritto chiaramente il privilegio (o la condanna) d'una umanità e d'una intelligenza fuori del comune. Gli occhi neri, piegati dalla stanchezza e da una costernata gratitudine, si accendono ad ogni tiro di tabacco. Quarant'anni ed una biografia di privazioni portate con inconsapevole maestria. Invecchiare: non se lo può permettere. Una delle sue frasi preferite. Le spalle larghe, le fibre del corpo inspessite dalla fatica, una fatica che rivela le complicazioni del mestiere di medico al fronte. Perchè sì, Hera è un fronte di guerra. E Max non è mai stato congedato dalla propria coscienza. È imbrattato di sangue, sugli avambracci lasciati indifesi dalla canotta, ma non sui polsi ed i palmi: ha trovato il tempo di lavarsi. 
Appoggiati alla parete, uno di fianco all'altro, presidiano i silenzi tra le loro frasi con tranquillità, avvalendosi dello scrosciare confortante della pioggia. 
- Sì... della scorsa settimana. E... Lui come sta...? - Bowie protende la testa, ad indicare l'interno della struttura innalzata oltre la propria schiena. Sulla propria schiena. Letteralmente
- Il ragazzo? Bene. L'ho alleggerito della milza. Zoppicherà da una gamba. Vivrà abbastanza da procurarsi un'altra occasione per saltare per aria - 
Max sorride, schiocca la lingua e libera la cartina dalla cenere in esubero. 
- Tu come stai? 
- Io?- Anche Ritter inarca l'angolo delle labbra, appendendolo allo zigomo marcato - Non c'è male. Quando mi pagherai, pagami in camicie, per favore - 
Bowie non risponde, ma dimostra di apprezzare l'umorismo allungando la smorfia, diluendola ai margini d'una boccata di fumo. 
- Ho prelevato i campioni d'acqua dal nuovo pozzo. Ad occhio la falda sembra pulita. Ma mi serve un microscopio- 
- Maverick te ne procurerà uno - 
- Maverick... - 
- Sì, tramite i Coats su Columba; gli avevo anticipato la questione - 
- Servono anche gli anestetici. Urgentemente - 
- Per quelli... - Bowie lancia il mozzicone oltre la tettoia, la fiamma annega nel grigiore fradicio dell'aria circostante - Per quelli penso dovrà trattare con qualche banda di sciacalli - 
- In cambio di...? - 
- Denaro, ovvio. Gioielli. Alcolici. Comprano armi dai contrabbandieri per scaricarsele addosso quotidianamente; o razziare...- Il lessico latita, quando di fronte a te c'è una tale miseria da erodere persino il vocabolario - ... villaggi - 
- ... - Eleazar scruta il collega; l'espressione non indica una reale perplessità. Conosce la risposta al proprio dubbio, la logica non gli difetta. Seppure nell'incongruo panorama d'una faida tra bande, combattuta per impossessarsi di appezzamenti di terra morta, priva di ricchezze, di vita, di prospettiva. Un ammazzatoio orchestrato al solo scopo di sfogare il bisogno, l'illusione del potere.
- Fortunatamente a Rockfort la situazione rimane tollerabile. Hanno paura di Maverick. E dei suoi. L'ultima volta che sono venuti hanno... insomma, alcune ragazze- 
- Julie - 
- Ti hanno già raccontato la storia. Meglio così. Maverick ne ha catturati un paio, li ha legati per i piedi alla jeep e li ha trascinati sul pietraio per diverse ore. Di faccia - 
Ritter si scosta dalla parete, ma non accenna realmente a volersene andare. Non che la pioggia sia un problema. Forse lo è la solitudine squallida del prefabbricato in cui dorme. Forse lo è la solitudine aggressiva del suo cervello a lavoro. Oggi è stata una giornata gloriosa: non hanno perso nessuno. È triste che le giornate gloriose debbano finire come quelle tragiche. Si smarrisce la voglia di esultare, quando la bilancia si dimostra ingiusta troppo a lungo. 
- Ritter... toglimi una curiosità - 
Eleazar è di schiena, il fisico sottile, dalle movenze vagamente impigrite, eppure nervose si blocca di colpo, con delicatezza. Pare di poter udire quasi il 'click' delle articolazioni, della mente che mette a fuoco se stessa. I nervi, sotto la cute, sotto la stoffa, comunicano agli indumenti un traballare lievissimo. 
- Quale? - 
- Cosa ci fai qui? Cosa ci fa qui uno come te? - 
L'ammirazione, la gratitudine, sono inquinate da una sincera perplessità. E forse da un prototipo di diffidenza. Eleazar resta immobile. Si accorge che il ritmo delle gocce sulle lamiere si incastra perfettamente con quello del suo cuore, della sua tachicardia da astinenza. Legge la risposta nelle increspature sconnesse delle pozzanghere, nell'odore del metallo in rovina. Sfiora il nastro bianco annodato al polso, vi nasconde ordinatamente la verità. Elabora una versione semplificata della storia. Non meno realistica dell'altra. Solo più... vaga. Appena. 
- Il medico - 
Bowie scoppia a ridere. Ride di frequente, nonostante tutto. 
- Vai al diavolo, Ritter - 
Eleazar si è già avviato sotto il temporale battente. In senso lato, il suo diavolo lo sta davvero aspettando.