lunedì, giugno 11

We won't run


I was 27 years old the first time I died. I remember there was white everywhere. There was war and I felt alive, but really I was dead. Sometimes I think we live through things only to be able to say that it happened. That it wasn't to someone else, it was to me.  
Sometimes we live to beat the odds.


scritto su alcuni fogli ingialliti, calligrafia piuttosto ordinata
[ stanza, Maracay, Richleaf ]

Nessun armistizio risolverà mai una guerra. Una guerra si nutre di radici che l'armistizio non intacca. Un armistizio miete la pianta, sino a raderla al suolo, sino a scoprire la terra nuda; un armistizio falcia gli steli, i tronchi, al loro grado zero. Ma il tronco spezzato, lo stelo reciso sono vivi, violentemente vivi oltre la crosta terrestre. Quel vuoto civile, diserbato, di cui ci ubriachiamo, è un palliativo alle nostre paure, alla nostra paura della foresta. Lentamente il vuoto inizia a germogliare, di nuovo, dai monconi. E tutto ciò che abbiamo costruito sull'illusione della calma viene divorato dall'edera, dal verde selvaggio; ogni muro schiantato, il cemento stritolato.
L'armistizio è la potatura drastica di una messe incontrollabile, che rende agibile lo spazio per qualche anno, finché la natura smaschera la beffa. Se non infili le mani nel fango, se non strazi coi denti le radici, la guerra non giunge mai all'epilogo. La guerra produce fiori vistosi, in superficie e l'uomo si perda a distruggerne l'evidenza scintillante, dimenticando il sottosuolo.
Il sottosuolo.



Così come la mia malattia.
La mia malattia è una guerra in sordina.

A Serenity pensai, dieci, cento, mille volte che fosse la fine. Quella con la maiuscola, quella che ti cuce le palpebre al viso.
Quando le batterie laser percuotevano gli anfratti carsici in cui mutavamo, in un'orgia di rabbia, la disperazione in resistenza assurda e suicida. Quando le loro navi, come un impossibile stormo di aquile si riversarono sulla valle stridendo siluri e morte sulle nostre teste fino a ribaltare il cielo e la terra. Di fronte alle armi spianate dietro la menzogna d'una lingua di roccia, dopo l'ennesimo vicolo cieco e accecato dal disordine. A due metri dalla granata sbocciata in mezzo alla trincea. Attraversando il camminamento scoperto sopra al campo venticinque, prima di rovinare su un mucchio di corpi e trovarli morti, nonostante il miracolo di raggiungerli. Lo pensai al cospetto del tenente Gregory Green, trent'anni, schiantato da una raffica al ventre dopo parole d'allegro rimprovero: in sua presenza nessun soldato era autorizzato a perdere la guerra.
Pensai milioni di volte che fosse la fine, sì.
Mi sono vissuto, sino all'ultimo, come dovessi vivere la fine. Ed è una leggenda, che viversi  come fosse la fine è viversi al vertice dell'intensità. Una leggenda puerile, idiota ed ipocrita. Non c'è nulla di più emotivamente prosciugante di sapersi conclusi, determinati. Nessuno giorno trascorso con la coscienza dell'epilogo a breve distanza, mi ha spinto, negli ultimi tre anni a godermi maggiormente le ore spese ad esistere.
Esistere. Al fronte, l'esistenza divenne un equipaggiamento sofisticato da indossare, da sbattere sul campo senza pietà. Perderla, significava compromettere una missione e nulla di più. Le esistenze degli altri, ad un certo punto, divennero un fucile da pulire, una trincea da scavare, una cassa di siluri da preservare. Esaurirsi, in una cieca funzionalità.
Confondevo l'apatia col coraggio, ma il coraggio esiste nel timore d'una perdita, nel superamento d'una paura. Non è dato coraggio, senza superamento d'una paura.
Non avevo paura, non ne ho mai avuta.
Fino ad adesso.
Adesso sì. Ma mi manca il coraggio, il coraggio che non è apatia, non è sfrontata superficialità. Il coraggio vero di decidere, di scavalcare il muro, a furia di graffi. Lo odio. Odio essere un codardo.
Odio dovermene accorgere, ora che gli eventi hanno passato la mano sulla polvere adagiata sopra lo spirito, mettendolo a nudo. Mettendo a nudo la carne dove è debole, dove è livida ed aggredita, impreparata agli urti, alla carezze.
Possedevo un equilibrio, l'ho perso. L'ho speso, giocato, in cambio di cosa?
In cambio del calore, in cambio d'un posto migliore in cui tornare. In cambio della prostrazione completa.In cambio di Sterling.
Non faccio altro che prostrarmi, prostrami da quando l'ho conosciuta. Ho accettato tutto; le sue rivoluzioni, la sua assenza completa di logica, il modo in cui ha riaperto ferite antiche e sopite, i suoi sacrifici inutili, i suicidi assurdi, l'egoismo innocente, la speranza arrogante.
Una ritirata rovinosa, in suo onore, in suo nome.
Ho bisogno dell'amore. Ho bisogno di Eir.
Non ho mai voluto qualcosa davvero, con tutto me stesso; è accaduto. E non si guarisce da qualcosa che si vuole davvero. Mai. Io voglio lei.
Mi sono sempre illuso che il maggiore ostacolo a tutto questo fosse di natura ideologica. Invece, il maggiore ostacolo sono semplicemente io. Io, nella mia interezza di persona. Di individuo.
Trascinato in un mondo che non mi appartiene, dentro emozioni a cui la mancata esperienza conferisce lame al posto di piume, trascinato con la faccia nel futuro sino a soffocare, accettarlo o soffocare.
Non posso avere Sterling, finché morte non ci separi, in salute ed in malattia, nella gioia e nel dolore se non mi rassegno a condividere con lei il dramma di non sapermi gestire.
Se non imparo ad essere un vero essere umano.
Invece d'una bestia sofisticata.


Poi ci ho pensato. Non è il tuo, mondo... Il tuo passato, le tue guerre, i miei fantasmi, le mie persone. I confini sono dove li metti tu. E ci vuole un dannato coraggio, a superarli.


Mostrarle il momento dell'iniezione è l'ennesimo atto di fiducia. Un territorio ingestibile oltre la mia razionalità, oltre le sue dita. Qualcosa soltanto nostro.
Nostro. Il problema con Eir è la condivisione. Con quanto devo condividerla? Con quanti? La rabbia che ho dentro, la rabbia molesta e aggressiva dipende dallo squilibrio, dal senso di inferiorità.
Lascerei qualunque cosa, tradirei chiunque, venderei chiunque, rinuncerei con facilità a qualsiasi prospettiva se fosse lei a domandarmelo. Eir mi basta, non me ne vergogno. Eir è l'unica cosa per cui sopporto, giorno per giorno, le schermaglie con nuove debolezze, vecchi mostri, perenni condanne.
Per Sterling non è lo stesso. No. Non le basto io. Le serve una causa, una ragione, un equipaggio, una missione, degli affetti concreti. Le serve Jack, le serve Edwards, le serve Roona, le serve l'indipendenza, le serve il ricordo di Blackbourne, la fermezza di Wright, la presenza di Pike. Le serve Quinn. Le serve la promessa d'un futuro. 
Il mio nervosismo attuale è frutto di gelosia, è frutto di frustrazione, d'una dignità offesa, un rigurgito di individualismo. Non sposo il suo mondo, le sue prospettive; sposo lei.
Sposo lei soltanto.
Il 'Verse non può accampare pretese sul mio io.
E se la storia ha fame di me, può morire di inedia.


-Non me ne importa niente del 'Verse, non me ne importa niente dei nostri figli, della libertà, dell'umanità, della luce, di niente ... La verità, la verità è che tu dici gioco, tu dici... dici vittoria, dici... .... Io ti ho già dato tutto me. Tutto quanto. Gli incubi, le allucinazioni, le crisi isteriche da cosa pensi derivino? Eh? ... Avevo un equilibrio, poi sei arrivata tu. L'ho mandato a puttane. L'ho mandato a puttane per avere te. 

-Non te ne importa, perchè... perchè sai che non succederà. Perchè dici di aver dato tutto quanto, ma ti sei dimenticato la vita. Perchè rinunciare alla morte è troppo, e guardare avanti vuol dire rinunciare alla morte.


Eir mi dice che il suo equipaggio, la sue idee, sono parte di lei, sono lei. 
Non ci credo, non ci voglio credere. 
Nel mio corpo c'è spazio al massimo per due persone. 
È impossibile pensare che esistano individui il cui spirito si accolla la responsabilità, il destino, il legame di quattro, cinque, dieci, cento anime. D'un universo intero. 

E mento, quando dico che la storia può crepare per fame, se ha fame di me. Mento. Perchè se la rivoluzione è un requisito, un angolo, una metà del nome di Sterling, se lei è nella rivolta, se lei è nella sommossa e nella speranza, sono condannato a rivoltarmi, sommuovere, sperare, per stringerla a me, per portarla all'altare, a letto, per svegliarla la mattina e misurare il tempo che impiega a sorridere. 
Temo di sapere come andrà a finire. 
Finirà che avrò di nuovo un coat addosso, ecco fatto; confido, nel frattempo, d'aver sposato la causa, assieme a Sterling. 
Maledizione, non so nemmeno perchè mi viene da ridere. 

Procedo e il cervello si complica. 
Adesso non vedo più soltanto Will. Vedo Eir. L'ultima volta, per poco, non mi sparo. Cerco di prenderla con filosofia, cerco di sputare in faccia al destino che tenta di strapparmi anche l'ultimo centimetro di spazio vivibile, abitabile, respirabile. 
In mezzo, oltre, il blast, la morfina, i ricatti, la Blue Sun, Maracay.
Ho tolto la sicura alla weyland a tempo indeterminato. 
Ho tolto la sicura all'esistenza, a tempo indeterminato.