martedì, aprile 24

Fake empire

scritto e archiviato nella memoria dell'holodeck
[New London - camera d'albergo]



Alla fine non sono andato al concerto, nonostante le ferie.
La verità: temevo di incontrare mia madre e mio padre. Ostentano sempre, specialmente Rachele, una certa passione posticcia per la musica. Salvo poi trovare da ridire su qualunque cosa, come qualsivoglia blasonato stronzo che si rispetti, cosciente di elargire pareri determinanti per posizione sociale. 
Io, che paradossalmente amo in sincerità certe cose, mi son dovuto tirare indietro per amore della pace mentale.
Impossibile tollerare il quadretto edificante di quell'ignorante di mio fratello a braccetto del nulla ornato di pizzo (sua moglie: non rammento nemmeno il nome): per Elia, fracassare due pentole o ascoltare Bach apre i medesimi scenari spirituali. Ma scaldare la poltrona ai concerti, sedersi sulle mondanità per rimarcarne il possesso, è pubblicamente obbligato, se sei un Ritter. 

Ho regalato il biglietto in prima fila a Neville; avrà tenuto alto l'onore della nostra nave presso il popolo femminile sopraggiunto all'esibizione.
Ming Li è davvero notevole; lo so. 
Donna Winter mi ha promesso che potrò strimpellare quel pianoforte mitologico. Spero, quanto meno, di non sembrare un maiale seduto su un trono d'oro, qualora capitasse (e farò in modo che capiti). 



In appartamento, ho liberato i libri, gli oggetti dall'oppressione degli scatoloni. 
Dalla condanna della precarietà.
Dopo una striscia di blast, parevo sinceramente impazzito. D'un tratto dovevo sistemare tutto. O sarei esploso. Morto. Dovevo consegnare a ciascun solido il proprio covo, il proprio spazio nelle tre dimensioni. Fissarlo, affidargli un postazione, un baluardo da cui presiedere l'esistenza che avanza. 
Una dimora. Una dimora stabile. 
Vittoria,  sconfitta, non importa. 
Se devo morire, voglio morire in un metro quadrato che sia davvero casa mia. 
Finalmente. 
Questa è casa mia. Lei è casa mia. 
Il mio posto migliore. 


-Cosa mi guardi a fare con quegli occhi a squilibrato demoniaco? Eh? Che ti pare strano? 
Ritter allarga le braccia, come in un gioco maldestro di carte. La camicia slacciata lascia intravedere un sentiero di sudore lungo il petto e l'addome: spacchettare il suo passato è stato faticoso. Spacchettare il passato con la musica in stanza a cui sottoporre ogni mossa, fino alla demenza, è stato doppiamente faticoso. Compiere l'impresa col blast a zonzo nelle vene ha costato una fatica tre volte maggiore. 
Le dita rincorrono il cervello fra i capelli, arrotola fiato sotto la lingua. 
Montezuma lo scruta, sfinge tascabile, dalla tavola sommersa di scartoffie improbabili. 
Occhi di biglia. Un quadro comandi illuminato. Il quadro comandi degli dei. 
-Insomma, prima o poi uno deve finire di traslocare
Montezuma sbatte le palpebre 
-Ok, ok, ho colto le tue obiezioni. Hai ragione
Montezuma sbatte le palpebre
-Mh... Non capisco cosa possa significare 
Montezuma agita la coda 
-Oh, bé, tu sai sempre tutto. Beato te. 
Ritter sbuffa, percorre il pavimento freddo a piedi nudi una decina di volte, per scaricare sulle piastrelle immote l'euforia della dose, del cambiamento . 
Abbandona la schiena alla porta. Analizza la propria babele personale, affondando una cicca fra le labbra ruvide. Ridacchia, sconsolato, mentre la accende in un'urgenza cieca.
Il responsabile dell'infermeria di Hall Point. Un contrabbandiere. Un tossico. Un tabagista. Un fotografo. Uno psicopatico. Un  morto in guerra. Un reduce. Un ragazzo di Corona. Una puttana di Corona. Un medico. Uno stronzo. Un disilluso. Un tipo dentro un cappotto marrone. Un tipo fuori al cappotto marrone. L'uomo di Eir. L'uomo che Eir ha scelto quando il verse era giovane
Tutto. Troppo. 
Il ghigno trasmuta, progressivamente, in una risata di genuino isterismo; scinde il viso come un colpo di spada. Come se lo spirito avesse infilato le dita in mezzo al sale della maschera, a forza, spaccandola a metà. La musica cresce indisturbata, all'ombra del dubbio, della magia. 


Do you really think you can just
Put it in a safe behind a paint and
Lock it up and leave?


Ho incontrato Larousse a New London. Mi mancava la capitale, la sua atmosfera grigia tesa ad asciugare elegantemente fra i grattacieli. 
Ci siamo visti ad un caffé. Pioveva. Un cocktail di nicotina e acqua. 
Vincent è invecchiato bene. Ha definitivamente assunto l'aria paterna a cui aspirava dai tempi dei ruggenti cinquant'anni. Mi accoglie con quel sorriso buono, imbarazzato, che ne sospinge la pelle irsuta del volto a coprire quasi completamente la sclera. Non ha perso il vizio di abbinare malissimo i capi d'abbigliamento, i colori, e di dondolare la testa arruffata simile ad un metronomo. 
Dopo la guerra ha diradato i propri interventi accademici attivi, limitandosi a riscuotere prestigiosi premi seminati in passato. Il marito di sua figlia è morto a Sturges, da giovane e confuso ufficiale in blu quale Larousse lo descrive. Immaginare Eylin mi rende malinconico. Non lei in quanto entità: colleziono scarsi frammenti della sua figura impacciata, robusta, concentrata stoicamente per non vomitare alle autopsie. A rendermi malinconico è il portato della figura, quel che trae dietro, tipo un sacco bucato. 
La aule universitarie, i gruppi di lavoro, l'equipe, le conferenze, la polemica, la spocchia, i proclama, i braistorming alcolici in Carpatia Square, le fughe in spiaggia. Allora pareva stupido, scontato. Ora... ora, no. 
Larousse s'è pressoché commosso di fronte ai fascicoli della nostra ricerca, senza risparmiarmi lo sguardo severo, protettivo, per la sottrazione criminale a cui mi son prestato. Sfogliava le pagine, privo di riguardi per le proprie extrasistole ribelli, sfiorando con gentile avidità la superficie del teck reader. 
Il progetto di quel cuore artificiale, di quel polmone artificiale... fino alla pazzia per cui spendemmo mesi e mesi di frustrazioni, esaltazioni, euforie, disperazioni: l'intero apparato digerente riprodotto in sintetico a buon mercato. Perfetto. Ricordo: mi mangiai le nuvole a morsi, quella mattina di marzo, dopo settanta ore di insonnia proterva; quando sfuggì dalle nostre bocche sporche di caffé secco la parola proibita: 'Funziona!'. Funzionava. 

-Will! Will ci sei? 
Eleazar spalanca la porta schiantandosi di faccia in un muro di cipolla sintetica. Le occhiaie marcate, vistose, si riempiono della luce di mezzogiorno; il sole affluisce copioso dal finestrone spalancato su Capital City. William compare dalla cucina, a capolino, in mezzo al fiatone del medico scarmigliato e stravolto. 
-Quella barba è un voto, Ritter? 
-Will, è incredibile, incredibile
-Anche io sono contento di vederti, dopo quattro giorni di latitanza priva di segni vitali...
Eleazar si butta di schiena sul letto, ignorando la provocazione affettuosa. L'amico lo segue, fedelmente, perfettamente cosciente si stare per assistere ad uno dei rarissimi momenti di grazia della salamandra farcita di nicotina e nichilismo. Si siede sul materasso, sistemando i capelli fulvi in una coda malnata. Brandisce un mestolo.
-Ci siamo riusciti
Ritter serra gli occhi, li riapre. Agita una mano, a bocca schiusa, a sinapsi spalancate, per ordinare le sillabe. 
-Il... il progetto?
-Sì, sì. È completo. Fatto, finito, capisci? Potrebbe... non so nemmeno io cosa potrebbe significare. 
-Funziona?
-Alla grande
Will gli batte una pacca sul ginocchio, sorridendo entusiasta. 
- La rivoluzione. Li farete rigirare tutti nella tomba per l'invidia, questi padri della medicina
-Piantala, andiamo
Eleazar ride, liberando il bianco dei denti in uno spazio di pelle e riccioli scuri, irsuti. 
- Sono contentissimo. Contentissimo... tipo... all'ennesima potenza. Davvero. Sai che significa? Significa che potete dare un taglio a queste storie malate e fasciste della genetica. Rifletti... Lavorare coi meccanici. Magari nel Rim... 
- Magari nel Rim 
- L'abbiamo fatto migliaia di volte, questo discorso. Vincent si è commosso?
- Ovviamente
- Non dovresti essere lì con lui a impazzire di gioia, tipo? 
Ritter si solleva, sfrega le dita sulla faccia sfatta e soddisfatta, fino ad arrossare il naso e la fronte spaziosa, pulita. 
- M'ha spedito a casa senza pietà. Imponendomi di trovare una ragazza e festeggiare
- La ragazza la dovresti trovare per festeggiare o in senso più impegnativo?
- Ah, non lo so. Non lo so Will. 
- Sto brigando da ore per rendere commestibile della plastica malamente camuffata da cipolla. Hai fame? T'avverto che potrebbe tornarci utile uno dei tuoi intestini finti per sopportare lo shock alimentare. 
Una meravigliosa giornata di marzo, dove tutto è ancora possibile.

Vincent avrebbe sfidato i siluri atomici, sfiorato il massacro, se solo gli avessi concesso di volermi bene. Se gli avessi concesso di avvicinarmi. Larousse... uno scalatore appassionato alle prese con la fottuta muraglia ghiacciata. Senza speranza. 
Mi conservava dal linciaggio quotidiano dei colleghi più anziani, più forti; mi parava il culo cazzata dopo cazzata, usandomi addirittura la delicatezza di nascondermi il proprio salvifico aiuto. 
Noto dalle iridi celesti, illuminate in mezzo alla bruma, che nulla è cambiato. 
Ci sono individui a cui non posso proprio impedire di tenere a me. Tenere per me. 
William, Vincent, Eir, Vergil... 
Non gli ho raccontato dell'impianto. Non ci sono riuscito. Non a quello sguardo fiducioso, grato. 
M'ha domandato di Eleria. Della morfina. Dell'esistenza, adesso. Se avessi mai desiderato un padre, nella mia futile vita di fallimenti, avrei scelto sicuramente Vincent. Ma non ne ho mai avuto bisogno, d'un padre. No. 

- Come stai? 
La voce di Larousse è guarnita dal rumore delle gocce che battono il lastricato. Da un vago odore di caffé, di colazione all'inglese. Di scalpicciare sul bagnato. 
Ritter affonda nell'impermeabile col bavero ancora alzato, a sottolineare ai tratti evasivi, scoscesi. Osserva il muro in cemento dall'altra parte della strada macchiarsi via via di presenze sfuggenti a passeggio. Di passaggio.
Vincent lo scruta, aspettando di poterne raccogliere a piene mani lo sguardo chirurgico. Lo guarda: il profilo s'è indurito, l'età ha spiccato gli angoli, svuotato le guance già povere. Il distacco che fu il vezzo del ragazzino è diventato la croce dell'uomo. Fuma, con la medesima dedizione di allora, mastica silenzi interminabili, ordina alcol ad orari improbabili. Il quesito suscita lo scatto delle labbra verso l'alto. La faccia usurata da quella smorfia disertata dai contenuti. 
- Domanda impegnativa 
Eleazar ruota la testa, scollandola a stento dalla melassa vuota in cui giaceva inabissata fino a qualche secondo prima. Ha lembi di nulla morbido appiccicati sul viso. Risponde all'attenzione del collega appendendogli sul capo filo delle iridi. Larousse ripone l'attenzione, con un rammarico evidente, paterno. 
- M'aspetto una risposta impegnativa, difatti
Per un attimo, i due uomini si fronteggiano ad armi spianate: l'uomo completo contro la statua integrale. Una curiosità amorevole contro un cinico disinteresse. L'azzurro dei mezzogiorni festivi contro il verde degli iceberg sotto le nuvole. 
- Il solito 
Larousse si accascia sul té bollente, foraggiando la propria malinconia in un docile rilassamento muscolare. 
- Ho capito 
- ... 
Ritter si serve del doppio whisky accomodandosi meglio nel mutismo protratto della scena in svolgimento. Fa suonare il ghiaccio. Lo mischia con le pupille. 
- Continui a rovinarti con gli stupefacenti? 
Eleazar sbuffa, strozzando una risata nel fumo che sguscia dalla bocca allentata; allontana il filtro con una mossa languida del braccio. Stupefacenti. Suona così vecchio e scientifico. Così grottesco. 
Scrolla le spalle. 
- Più o meno
- Non è un problema sul lavoro? 
- Sembrerebbe di no. Non fin'ora
- Non pensi mai di smettere, Ritter? 
- No 
Larousse serra le dita attorno alla tazza, portando un'offerta votiva alla tristezza che lo pervade a poco a poco, di fronte al suo migliore studente ridotto ad una macchina per il conto alla rovescia. 
- Se non per te stesso, per qualcun altro
- Qualcun altro chi? 
- Non c'è nessun altro? 
Eleazar prosciuga l'alcol, investe il bicchiere vuoto d'attenzione morbosa. Le falangi si contraggono come un polipo strappato all'acqua di mare. Un morso al labbro inferiore, un brivido della mascella. Segnali impercettibili. La mano s'arrampica fra i capelli castani. Atterra lungo la nuca. 
Vincent sorride. Di gratitudine. Raggiante. 
- Mi cerchi ancora l'anima gemella, Larousse?
- Solo se ce ne fosse bisogno. Ce n'è bisogno? 
- Non ce n'è mai stato bisogno.
Ritter si schiarisce la voce, improvvisa una smorfia elusiva senza troppo successo. Espira. Slaccia il colletto della camicia e pianta l'attenzione in volto al collega, raccogliendo la sfida. 
- Da ragazzo, eri un bugiardo migliore. 
L'uomo più anziano azzarda un passo audace, indiscreto, oltre le proprie corde naturali. 
- E un partito migliore. 
- Il tuo cervello è un'ottima dote. 
- Stai parlando di cervello con uno squilibrato tossicodipendente. 
- Pessimo bugiardo, sì: non sei convincente neanche quando fingi di sottostimarti. Sei molto affettato. Troppo. 
- ... 
- ...
La cameriera arriva e ritira i vuoti con solerzia. Ritter fa segno di abboccare la consumazione, rapido. 
- Ce n'era bisogno, forse. Non so. Ma di sicuro adesso non più. 
Larousse continua a condurre il proprio sorriso soddisfatto, buono, come uno stendardo. 
- Non più? 
- No, non più. 
- Bene.