sabato, febbraio 23

Green Gloves


[Oak Town, base alleata, cella]



Sono successe molte cose. 
Ho perso la passione di scriverle. Forse vivo nella strana ed infantile illusione che, non meditandole, non analizzandole, abbiano meno peso. Siano meno gravate da sovrastrutture lessicali, concettuali. Tutto quanto. 
La nascita di Cecilia, la taglia sulla testa di sua madre, la convivenza coi Larousse, il decesso di Molly, di Anya, il loro ritorno, l'incidente a New London, il furto di quadri, il carcere, la visita di Elia, l'astinenza allungata con palliativi inutili, come si allungano due dita di whisky in un mare di ghiaccio. Non lo so. 
Ho sempre dato un valore irrisorio alla mia vita. A livello fisico, biologico. Ed un valore sconsiderato alla mia persona, in quanto tale. In quanto individuo pensante, brillante, scaltro. Bistrattato la specie che è in me, esaltato la persona che sono. Questa arroganza incurabile e questo disprezzo dell'umana condizione di vulnerabilità, dell'esistenza come opportunità, mi hanno spesso condotto al suicidio, intrapreso con maggior o minore coscienza. Con maggio o minore incoscienza. Con maggior o minore determinazione, mezzi, rapidità.



Non è stata l'illuminazione d'un momento, quanto un processo di chiarificazione interiore molto logico. E spietato. Mi appartiene la mia vita, mi appartiene la mia libertà, ma m'appartengono anche le conseguenze di questa vita e di questa libertà, soprattutto se esuberano dal percorso tracciato per me. 
Cecilia ed Eir sono parte di tali conseguenze. Ho sempre reputato che vi fosse molta determinazione 'ideologica' in quello che stavo facendo (sto ancora facendo, fino prova contraria). In verità si tratta soltanto della spassionata mancanza di senso. Mi mancava un senso, un motivo. Molta gente va avanti senza bisogno di una qualsiasi giustificazione a se stessa, semplicemente ritenendo i giorni a disposizione una pena da scontare o una vacanza dal vuoto. Non sono così. Non avverto così tanto rispetto per la vita da reputarla sacra in quanto tale, e così poco rispetto per me stesso da autorizzarmi a respirare sino ad ottant'anni solo perchè l'evoluzione m'ha concesso dei polmoni funzionanti ed un cuore in moto perpetuo. Mancanza di senso. Eir m'ha restituito il senso mancante. Mia figlia m'ha restituito il senso mancante. Sono loro quello che devo fare per il resto dei miei giorni, per i giorni che restano. 


Ma anche mancanza d'un posto, d'una casa, d'una identità. Una famiglia, per utilizzare termini dal ridicolo retrogusto romantico. La mancanza d'una famiglia. Una famiglia che ho trovato d'improvviso, senza preavviso, nella sibillina complicità di Anya, nella schietta verità di Molly, nello squilibrato ed ingestibile affetto di Joe, nei silenzi di Muto, nelle imprecazioni di Sammy... tra le pareti del Machine e quelle della Monkey. Sono stato in guerra per negare un'identità attribuita alla mia faccia da un'origine scomoda, un'origine sbagliata, che non mi ha mai rappresentato. Sono stato in guerra, mi sono annientato, rovinato, esiliato dalla comunità della gioia ipocrita, della ricchezza insensata e della criminalità mascherata dietro ai ventagli. Mi sono usato allo stremo di me, ho usato gli altri allo stremo di loro stessi, come ultima definitiva prova di fedeltà, di affetto. Non è difficile: quelli che sono rimasti, e rimarranno sempre, sono in ultima analisi la mia famiglia. Quella vera. 
Quella non scritta nel sangue, ma che sei disposto a versare sangue per difendere. 


La mancanza di un amico; mi sono sempre sentito in debito, per Will. Le cose non dette, quelle non fatte, la responsabilità scriteriata nel suo arruolamento, quando avrei dovuto dissuaderlo vedendolo tentennare e invece ne sfidai l'orgoglio, sbagliando la previsione dei risultati immediati. Partì. Non tornò. Non sono mai stato a visitare la sua tomba, non penso ci andrò mai. Non ho mai trovato la sua donna, non penso la troverò mai. Vorrei poter credere che quanto ho sofferto (era sofferenza) resti, quanto meno, come gesto ultimo di affetto. Ne dubito. Giustificazioni infantili a posteriori. Rimane il fatto che Ritter è qua, Keynard non più. Al fronte c'ero anche io; mi sono buttato, distrutto, prosciugato in trincea. Forse non basta, ma devo pensare che basti. Devo pensare basterà.
Vergil è il migliore amico io abbia mai avuto. 


Mancanza di una coscienza, forse. D'una responsabilità intrinseca. D'una determinazione, d'una volontà forte che non fosse l'improvvisazione d'un istinto estremizzato nella tossicodipendenza e nella sociopatia. Scegliere con coscienza. E quella coscienza è stata Jack Rooster, in assenza di meglio. Anzi, è stata Jack Rooster perché, per uno come me, l'unica coscienza possibile è una come lei. 


Non sono un indipendentista, sono un individualista. Al contempo, il mio cervello si nutre di ragione, si nutre delle verità schematiche dello scienziato (pur ubriacandosi troppo spesso di umori sentimentali sbagliati, al momento sbagliato): non sono un indipendentista ma, razionalmente, ritengo che lo stimolo,  la prospettiva rivoluzionaria sia quella giusta. 'Giusta' non inteso in chiave etica, nell'ambito lessicale della morale, bensì a livello matematico, empirico addirittura. Cioè: sia esattamente quello che deve accadere dati determinati presupposti storici. 


Sono stanco della morfina, del blast. Sono stanco, pur nella nausea, nel mal di testa, nei sudori freddi. Nel malessere che so già diverrà dolore nelle prossime ore. Sono stanco. 
Credo proverò a smettere. Con l'aiuto di qualcuno. È bene allineare le mie speranze di vita fisiche con quelle volitivo/emotive. 


In carcere è arrivato Elia, ingessato e tristemente sconvolto come suo solito. L'ultimo bottone della camicia agganciato. Un particolare che definisce larga parte di lui. Non sembra invecchiato, né cambiato. Adesso pare più giovane di me. Si è seduto dietro al vetro della sala visite, composto, di quella compostezza sempre allerta, sempre ingombrante a sé medesima. Credevo avrei perso la testa, in un momento simile. Lo credevo. Invece no. Sono stato contento di rivederlo, di ignorare i suoi occhi lucidi a tratti, il suo imbarazzo. Il timore di deludermi, la coscienza drammatica di avermi deluso, scegliendo di non deludere nostro padre. Troppe cose che non possiamo dirci; troppe cose che non c'è bisogno, di dire. Gli racconterò della bambina, prima o poi. 
Iniziare a perdonare alcune persone; i peccati di cui si sono macchiati, sono solitamente peccati contro il mio egocentrismo smisurato. O connivenze inconsapevoli con sistemi malati. Più la prima, della seconda.



Quando mi sono svegliato dal coma, dopo l'incidente, erano finiti gli incubi.
Avevo scontato la condanna. Avevo seppellito i miei morti: Blackrock, Hera, Boros, Spartaca. William. L'adolescente, il bambino che mia madre non mi ha concesso di essere. Le persone che ho ucciso, quelle che non ho salvato. Ho scontato la condanna, seppellito i miei morti.
Non è il perdono. Non è l'innocenza.
Ma non ho bisogno né di perdono, né di innocenza per andare avanti. Per ricominciare da capo.