domenica, febbraio 26

I'm not the hero out the gate, so much to feel, so much to gain

scritto e archiviato nella memoria personale dell'holodeck
[spazio, nave Kijitsu]



Il viaggio è una condizione esistenziale piacevole. 
Puoi sospendere ogni questione sino alla meta, puoi sospendere persino te stesso, metterti tra parentesi. Lasciata una sponda, non sei ancora approdato sull'altra. Transiti e forse sperimenti una primigenia forma di redenzione. 

A volte penso che avrei dovuto fare il pilota. O il poeta. 

Mi sono appena ritirato in cabina e sono stanco. È stata una serata movimentata: eravamo quasi giunti in prossimità di Willow, tanto che ho potuto lambirlo con gli occhi, oltre i vetri della Kijitsu. 
Nonostante la vicinanza, siamo dovuti tornare indietro: uno sciame meteorico ha danneggiato i sensori. Peccato, sul serio. 
Ho compreso, con una punta di disgusto riflesso, che fatico a provare paura. Non mi spavento mai, veramente, intensamente. Anche in questa occasione: non era il timore per la minaccia attuale a farmi tremare le dita, non era l'odore pungente del pericolo imminente... le mani fremevano in nome d'una sindrome antica, d'un terrore atavico e distante, il mostro in fondo all'abisso. Non sono in grado di emozionarmi per nulla di sensibile, di attuale; ogni contatto esterno sommuove una memoria ed e quella memoria a muovermi l'anima. È artificiale. È conoscere il mondo dietro una lastra di vetro. 
Quanto tempo è che la carne non si impenna in un brivido autentico?
Che non mi viene la pelle d'oca? 
Che non mi confronto, senza filtro, con la realtà? 
Ho perso il gusto di esistere. 
Che è diverso da voler morire. Per carità.
E questo sì, è merito della morfina; dell'alcol, della solitudine indotta, dello shock; della guerra. 
Il peggio? Tutto ciò non mi provoca alcuna tristezza, alcuna malinconia.
Non sono amareggiato e dovrei essere, come minimo disperato. 
Chissà.  

L'equipaggio della Kijitsu è composto da individui interessanti. 
Si respira, tra le pareti in lega, un cameratismo di cui, forse, oso persino avvertire la mancanza. Dillon è un paziente che curai in infermeria; Ballantyne è una conoscenza vaga, stabilita su Greenfield di recente: mi ha stupito constatare quanto sia abile a pilotare una nave. Ci ha tolto dai guai senza scomporsi. 

Ho potuto confrontarmi a lungo con Neville, Vergil Neville. 
Un uomo, un'impressione positiva.
È un reduce, un po' come me. 
Non basta tornare dalla guerra, per chiamarsi reduci: un reduce è colui a cui il diavolo ha tuffato la testa in un secchio d'inferno, una, due, tre volte, per convincerlo ad abiurare alla vita. Senza successo.  Esistono persone (fortunate) che attraversano cento campi di battaglia senza sperimentare mai nulla del genere. 
Neville è un disilluso, ma non un rinunciatario; almeno, per l'idea che me sono fatto dopo qualche ora davanti ad un bourbon. In questo, siamo diversi. 

La signorina Evans si sta prendendo cura del mio gatto ed interessando ai miei libri. 
Ho dovuto fidarmi di qualcuno e non ho faticato a farlo. 
L'altra sera ho avuto un interessante scambio di opinioni con lei. Interessante ed etilicamente rilevante. È  una ragazza sveglia; possiede un cervello ed una sensibilità d'intralcio al lavoro che svolge: gli stupidi ed i superficiali sparano meglio. 
La questione, l'ostacolo, le ho detto, non è diventare forti, è la vulnerabilità che denudiamo nel tentativo. La debolezza, mi ha risposto, è presupposto ad ogni forza. 
Il problema, per me, abita altrove: io non sono affatto debole, sono forte. Molto forte. Sono forte perché sono vivo, sono sopravvissuto e continuo a sopravvivermi giorno dopo giorno. Niente famiglia alle spalle, la guerra, la morte di William, l'ospedale psichiatrico, la droga. Il problema, per me, è il prezzo da pagare per tale forza. Ho ipotecato la mia anima. Cosa ci ho guadagnato, se niente mi tocca? Se nulla mi sconvolge, mi commuove, mi turba, mi scuote? Preferirei trascorrere le mie giornate a piangere sul passato, sul vuoto, sul dolore, a piegarmi ad una fragilità qualunque, ad un'umana disperazione. Lo preferirei a questo niente scostante, a questa indistruttibile coltre di nulla. 

Non manca molto al mio ritorno su Hall Point. 
Lo confesso: mi dispiace.