giovedì, marzo 15

History of headaches

scritto di getto su un foglio di carta, la pagina bianca di un vecchio libro
[nei pressi di Oak Town]



(certi miraggi fanno più amaro l'abisso)

Stamattina aspiravo a veder sorgere la luce naturale, nella mia stanza. Come a Corona, quel regno di raggi che scivolava su dalla vetrata del terrazzo. Come a Capital City, quando l'alba mordeva i grattacieli con innocente brutalità. La allungavamo col caffé, con le idee stupide e biascicate, con le parole. 
Le parole, Will, le parole. 
Mi ha consegnato se stessa a mani nude, pescandosi in mezzo ai vetri, e l'ha fatto con le parole.
Con le parole. 
Le ha riempite ad una ad una di tutto quello che è, di tutta la sua cieca furia, del movimento dei suoi muscoli irrequieti, della sua sensibilità disarmata e disarmante, dell'odore dei suoi capelli, del suo alcolismo, della sua violenta bellezza da creatura ferita. 
Poi me le ha lasciate lì, dove non potevo ignorarle. 
Will che devo fare? 
Vorrei infilarmi le dita nel cranio, sino al centro del cervello. 
Scavarmi lo sterno, fino a toccare il cuore dall'esterno. 
Vorrei tornare a un mese fa e non appoggiarmi a quella porta, a parlare con una donna confusa, spettinata, un po' infantile. Una donna che sarebbe diventata la croce del mio corpo. Vorrei non aver mai avvertito, quella volta, il fondale dell'anima impennarsi, impercettibilmente. Vorrei non averla mai rincorsa, al casinò, per leccarle via qualche ferita, per laccarmi via qualche ferita. Vorrei non averle mai chiesto scusa. Vorrei non averla mai fatta piangere. Vorrei non averla mai fatta ridere, soprattutto. Mai. Vorrei non averle mai raccontato della guerra. Vorrei che lei non m'avesse mai raccontato della guerra. Vorrei davvero, averci rimediato solo un paio di gambe ed un paio d'occhi incredibili. Vorrei non aver mai medicato quello sfregio, mai saputo dei suoi segreti. Vorrei non aver mai avuto bisogno di lei, un lacerante bisogno di lei.
E invece è successo. 
Mi trovavo ad impazzire, dentro allo iato interrogativo della sua distanza. 
L'ho fatto succedere. La ragione era lì, un passo avanti a me, ed io le sono passato accanto centinaia di volte a palpebre incollate, con la dannata presunzione tra le braccia, la presunzione d'avere il controllo. 
Cosa mi aspettavo? 
Che continuasse ad andare e venire, su e giù dall'esistenza, così, in una casualità posticcia, stupida, ipocrita? Che non m'avrebbe presentato il conto di tutta la passione pretesa a perdere, a perdermi addosso?
In sospeso, in sospeso. Non conclusa, come il resto: la questione con la mia famiglia, con la mia psicosi, con il fronte, con te, Will... ho lasciato tutto aperto, non ho risolto nulla. Spero che le risposte si dimentichino di venirmi a cercare, se dimentico di cercarle. 

Eir m'ha cercato, invece. 
M'ha trovato. Stanato. 
È innamorata di me. 
Le sue parole, con dentro se stessa. Eccole. 
Capisci, Will?

Ci distruggeremo, sì, è una prospettiva realistica. 
Se tu la conoscessi, Will, quanto ti piacerebbe. Un catalizzatore: succede tutto a velocità tremenda, con lei attorno A furia di sbraitare potrebbe convertire il vuoto in materia. 
Non sono un cretino. 
È bello, ora. Al di là di me. Lei tornerà, domani, dopodomani. Nonostante i limiti, nonostante i tentativi, nonostante il resto dell'universo. 
Lo so. 
Quello che non so è se sono innamorato di Eir o se non lo sono. 
La dipendenza, la bestia, in ogni caso è me. 
Non un accessorio, non un accidente: è me. Il mio cervello, è me. Ci sono troppe forze in campo.
Quale di queste parla a nome delle altre?
Quale è il mio io autentico?
Lasciare senza chiarimenti la questione è crudele, ma lo farò. Sì. 
Esistono una marea di ragioni per confondere le carte, non mi serve elencarle. 
Lei non lo merita, ma, in fin dei conti è troppo tardi. 
Troppo, davvero. 
Ho un desiderio ancestrale, profondo, di rovinare tutto.

Ricapitoliamo: cosa ci faccio su Greenfield?