giovedì, ottobre 17

First it Giveth

[Blackrock, valle del Guadalquivir - pressi Santa Cruz, novembre 2506]


Sapeva che sarebbe stato difficile. 

Doloroso. 

Le storie dei romantici della prima ora, dei giovani Corers toccati dalla grazia, arruolatisi in gloria e bellezza, rimandati a casa dalla mamma sfregiati a forza di sputi, di botte, di pallottole; sputi, botte e pallottole elargiti dalle mani degli stessi Rimmer in cui riponevano tante letterarie speranze. Alcuni fuggivano, altri cambiavano fronte; i meno fortunati morivano, molto banalmente. 
Quanto possono valere le idee utopiche, favolistiche, di un ragazzino agiato con troppi libri in testa e pochi calli sulle dita quando si tratta di far presa sull'ultimo anello della civiltà? Servirebbero i calli, non i libri. 
La guerra non era quello che s'aspettavano. Non lo era l'Outer. Le ragioni di quella gente, lo spirito di quella gente. Analfabeti, violenti, iniziavano a 'sopravvivere' appena nati, contro la percentuale che ne vedeva spirare uno su sette al parto, portandosi via madri adolescenti tra sofferenze atroci. Continuavano a sopravvivere, in un luogo in cui il tuo vicino ha ragione di fucilarti se per fame rubi una gallina, se per sete ti sporgi nel suo pozzo, se per errore scopi sua figlia. E oh, bè, se sei un uomo e per errore scopi suo figlio c'è la forca quando va bene, il pestaggio, la lapidazione, le martellate sul cranio quando va male. Un posto in cui le cinghiate a sangue si chiamano 'rigore paterno', la violenza domestica si chiama 'rispettare lo sposo', il femminicidio 'delitto d'onore'. Niente acqua corrente, niente elettricità, niente cortex. Niente uguaglianza, niente assistenza sanitaria; nessun diritto. Un posto dove vige la pena di morte per i ladri di cavalli. Un posto dove si crepa per febbre, si crepa per fame, si crepa per tutto, semplicemente, tra le bestie, come le bestie. 
I miraggi mitici delle anime nobili, partite da Central incoronate di ecumenismo, di fratellanza, di socialismo. Tu, giunto in trincea per scelta, in mezzo a gente che lotta per dovere, per necessità, contro il mondo che ti ha concesso l'agio di scegliere, e scegliere qualcosa che non ti appartiene. Sei come il nemico. Forse, quasi peggio del nemico. Il nemico, almeno, è comprensibile. Al nemico, puoi sparare senza rischiare una sanzione dei superiori. Al nemico bisogna sparare. Tu sei un nemico a cui non si può sparare. 

Eleazar lo sapeva. Lo sa. 

Blackrock è l'orlo estremo del 'Verse. Il peggio del peggio, nel peggio. 
Una manciata di Ribbons, poco più. Dao, lontanissimo. Una manciata di Ribbons; la quasi totalità tornerà indietro dopo un paio di mesi. O non vedrà l'alba del terzo. 

Eleazar Ritter, figlio di Herzog Ritter, magnate della Ritter Water, Ritter Water a cui è appaltata la provvigione idrica, lo scavo di pozzi logistici per conto dell'esercito Alleato, la Ritter Water che fornisce il liquido di raffreddamento rapido alle stesse navi Unioniste che raderanno al suolo Rio Verde, Santa Cruz, decimando i Coats nei cieli della Black Valley. 
Eleazar Ritter, nato su Corona. Ventitre anni, un passato da ricercatore, da scienziato, da 'bambino prodigio'; due lauree, inglese perfetto, mandarino perfetto. Un passato da privilegiato, trascorso al pianoforte, in barca a vela, al volante di macchine di lusso lanciate a 150 miglia orarie. Ha i modi aggraziati di un aristocratico, l'eleganza stanca e rabbiosa del genio irrequieto. Poca barba sul viso. Pochi muscoli sulle braccia, sulle spalle. 
Eleazar Ritter scende dalla Paris IV agli sgoccioli del 2506; e scende all'inferno.

Non pensa, quando sbatte la faccia a terra, sputando sangue, sputando bava, sulla rena secca della valle del Guadalquivir. O almeno non pensa a se stesso, non pensa ai perché, non pensa a come cavarsela. Il sole gli brucia la nuca, la testa, la schiena. O forse sono le botte, il dolore che impasta i nervi a piene unghie. Le braccia esili lo tengono sospeso in un tremito che oscilla tra il collasso e la rabbia cieca. Ansima. Tossisce. Le dita si aggrappano alla sabbia, pianta gli stivali, slitta a vuoto per alzarsi piedi. L'ennesima volta. Si stenterebbe a crederlo: una creatura tanto delicata e sottile in apparenza, possiede una simile caparbietà suicida, sproporzionata alla propria resistenza fisica. È nobile, Ritter. Se la porta addosso, gliela sbatte in faccia, la nobiltà; l'arroganza lo sostiene. 
Stanno urlando. Intorno. Eleazar non li sente, non più. Se sono insulti, saranno i soliti insulti. Il solito disprezzo. La solita furia. Li contano morire giorno per giorno gli amici, i fratelli, i i compatrioti. Li vedono. Ammazzati da gente come lui, da Corers venuti a consumare la loro terra, la loro generazione migliore. E Ritter, solo, sul confine difensivo a centonovanta chilometri da Santa Cruz, rappresenta tutto quello che odiano, a fine giornata, quando l'odio colma la misura, l'impotenza, la smania delle retrovie arroventate da un conflitto inarrivabile, poche centinaia di metri più avanti, in prima linea. 
Non pensa quando si raddrizza sulle ginocchia; le narici hanno uno sbotto di rosso, due fiotti amaranto ruscellano sul pallore sbarbato, il mento glabro, la camicia sporca di fango. Il sopracciglio spaccato, i capelli frammisti a carne fresca pestata, ammaccata come una pesca acerba. Quattro, cinque, sei gocce picchiettano al suolo. Le voci. Le urla intorno. 
Un'immagine schizza da tempia a tempia, qualcuno lo spintona; allunga la destra, la agita confusamente, nell'orgoglio dell'intoccabile. Un'immagine: è Will, su Shadetrack; la testa bionda si confonde con l'orizzonte ocra di Blackrock, instabile dentro gli occhi chiari di Eleazar. Will; timoroso, affabile, sensibile, abituato ad avvalersi d'uno splendore non più spendibile, non qui, non adesso. Will, abituato ad essere amato. Non è il dolore, per Ritter. Pestaggi, ne ha subiti a dozzine, risse. Sviluppi d'un cattivo carattere. Dopo tutto, una spranga non farà mai male quanto una lastra d'asfalto e l'ennesima manovra avventata d' una Cyclone 160 lanciata al limite. Non è il dolore, non solo il dolore. 
Serra i denti. Soffia un filo di bava tinta di scarlatto, che si schianta a terra. 

« ma guardate questo culo rotto di.... come cazzo si chiama quel posto di culi rotti, Sparrow? »

Marlowe è un pezzo di granito sudicio. Alto quanto Eleazar, ha geometricamente le spalle il doppio delle sue. Il muso schiacciato come una latta acciaccata contro uno spigolo. Le latte delle razioni. Puzzano, fanno schifo. Ti ribaltano le viscere. 

« Corona, aye »

Qualcuno fischia. Chiunque fischia. Il fischio greve tirato per una donna, per una troia. I fischi aumentano quando Ritter riguadagna la posizione retta, arroventando lo sguardo verde elettrico, sfocato nel caos dei traumi ripetuti, nel sapore del metallo. Costole spezzate. Ematomi. Li calcola inconsciamente prima di percepirli addosso. Persino le sue orecchie, una spezzata al lobo, stanno fischiando. Forte, fortissimo. 

« Corona che nome del cazzo. Non sei d'accordo, stronzo d'uno sciacallo del cazzo? »

Marlowe carica, ancora. Le scudisciate di sole, a picco, a trentacinque gradi, sulle piastrine del 'rocker rimbalzano dentro le pupille di Eleazar, in un battito di luce. I cori continuano a sollevarsi, sostenuti dalla polvere. Sta per arrivare; ancora. Di nuovo. 
Ritter sorride, un sorriso impervio, scriteriato, che spezza ad uno ad uno i tiranti della lucidità. Raspa il suolo. 

« Allora culo rotto? Ti hanno mangiato quella cazzo di lingua? »

« Parli molto.... per uno col.... col culo ed il cazzo sempre in bocca, Marlowe »

La battuta è volgare e sottile. L'inglese di Central impenna verso il cielo, una sviolinata bellicosa in mezzo alla bolgia di duemila tamburi. Naturalmente Marlowe non afferra la complessità del sarcasmo (ed è per questo, forse, che in una squilibrata alchimia Eleazar disarticola il sorriso in una risata sconnessa). Basta ed avanza la semplice superficie. Il soldato molla un cazzotto nello stomaco al giovane dottore, da piegarlo in due. Lo piega in due, effettivamente. Gli strappa una pozza di acido gastrico dalla gola. Ritter frana in ginocchio. Regge l'addome. Spreme a furia di denti il labbro dilaniato, per non piangere. 
Non c'è ossigeno. Non c'è pace. Non c'è fine. Non c'è soluzione. Il gioco funziona sempre allo stesso modo. Pestaggi, finché c'è tempo e voglia di pestare. Finché ci sono volontari. Le loro facce deformi in un cerchio, in un circo brutale, una centrifuga marrone, ocra, stopposa. Vomito. 
Finisce quando muori o quando loro sono stanchi. 
Una pedata. Un'altra. Le unghie raspano la rena, sin dove diviene solida. 
Ed Eleazar lo pensa, mentre perde la connessione con la ragione, ponte a ponte. Trema, trema e sorride perchè nel cervello culla la scena implacabile degli Avengers, degli Shangdi, delle batterie lanciasiluri, dei laser a doppia calibratura. Le armi perfette di casa propria, le armi dell'esercito alleato, nella loro pulita efficienza sterminatrice. Questa sarebbe Blackrock? Queste le falangi di Blackrock? I bastioni dell'indipendenza? Tutto qua? Catapecchie? Bifolchi? Sassi? Cavalli? Eleazar lo pensa e lo sa: i coats perderanno la fottuta guerra. La perderanno. Non possono vincerla. È scientificamente, matematicamente stabilito. Lo sa mentre annaspa dentro una sabbia fatta fango dalla sua bava. Trema e sorride di nuovo. Ride di nuovo. 

C'è un fucile. Ad un metro da lui. È scarico. 

Marlowe indietreggia.
Arringa la massa, un sorso di tequila. Loro, la loro tequila di merda. Quando arriverà l'aviazione. Quando l'artiglieria pesante. Quando le truppe specializzate. Quando le armi chimiche, i perforanti... oh, lui lo sa, le granate a frammentazione compatta, le granate a frammentazione diffusa. Lo sa. Sa sempre tutto prima che accada. 

C'è un fucile. La destra striscia, trova la canna.
Marlowe ritorna. Scrocchia il collo, le nocche. 
Eleazar inchioda le punte degli anfibi alla crosta della valle. Non è mai stato un grande giocatore di polo. Eppure, una cosa la ricorda: per conferire forza al colpo, il polso parte morbido per irrigidirsi sul finale. Il braccio accompagna il polso, dal gomito alla spalla. Una curva elegante. 

Il calcio del benson si schianta contro la mascella di Marlowe. Una mazzata magistrale. La migliore della carriera. Ritter brandisce il fucile dalla cima. Oscilla, in piedi, mentre il 'rocker incespica e cade. 


Il peggio, per Eleazar, arriverà tra poco. Se l'è guadagnato.


martedì, ottobre 8

This twisted crown



Era Maggio, il Maggio acceso e verde di Corona. Il maggio che spettinava persino i prati sistemati, le aiuole domate, le superfici patinate dei laghi artificiali. 
A maggio, il vento dal mare invadeva le tenute, invadeva le pianure, correva rapido sull'asfalto in una carica impetuosa e sconsiderata. Non c'era cena in cui non spegnesse le candele, pranzo in cui ribaltasse un gazebo, aperitivo in cui sradicasse gli ombrelli, o battuta di caccia su cui sventolasse un temporale mettendo tamburi alle zampe delle volpi, beffando i cercatori. 
Temporale. 
Vento e tempesta. 
Anche a cielo terso, come quel giorno. 
Vento e tempesta. 
Un ragazzino passeggiava sul limitare del campo da polo; c'era freddo, ma quel freddo pulito e amichevole che scalda il cervello e gli occhi. Gli occhi verde chiarissimo, aperti dentro l'obiettivo di una macchina digitale. Non guardava dove stava andando. Guardava da dentro l'apparecchio. Non lo schermo, l'obiettivo. L'obiettivo, il centro dell'immagine. 
Il trench aperto, come un paio d'ali grigie e lucenti, il maglione di cotone rosso, i pantaloni scuri, di tessuto sintetico. Procedeva, misurava l'orizzonte in bilico sul perimetro del prato, al di là della macchina poggiata sul naso appena pronunciato. 
Vento e tempesta. 
Il suo nome, il nome con cui lo chiamava sua madre. 
Sa'ar; come vento, come tempesta. 

«Chi è quel ragazzino?»
«Mh?»
«Quello alto, magro... un po' elegante»
«Ah» Rise «Ritter. Il figlio minore dei Ritter»
Dopo aver riso, Sandy spolverò le ginocchia dalle briciole della torta alle carote (vere carote), via dalle gambe piene, fasciate in una gonna ampia, pesante, come la sua figura adulta e gioviale. Guardò Danae, mingherlina, una scottatura da brezza di traverso sotto le ciglia bionde, due precoci segni di fianco alla bocca, le dita a schermare il piluccare ineducato. Si nutriva simile ad un uccellino, ma con gusto; sembrava serena nel proprio scialle bordeaux. 
«È carino. Assomiglia un po' a sua madre»
Sandy aggrottò la fronte morbida, sotto una colata di liscissimi ciuffi castano castoro. 
«Dici? Tu sei troppo giovane per ricordarti il padre... da giovane» Ridacchiò, bonaria, del proprio involontario intrigo di parole «Lo stesso modo di muoversi, lo stesso cipiglio...» Si fermò, si strinse nelle spalle rotonde «no, in fondo hai ragione tu. Ricorda molto più la madre »
Nessuna delle due pareva intenzionata a proseguire su Rachel. Il silenzio indicò qualcosa di più. Qualcosa di più lasciato indietro. In fin dei conti, il viso di Eleazar era ancora coperto dalla macchina brandita con impavida cura, le nocche colorate di porpora.
«Lo fa spesso?»
«Le fotografie? No, ce l'ha da un paio di giorni e...»
Danae scosse la chioma resa elettrica dall'umidità del prato.
«Intendo camminare così tutto per conto suo»
Sandy incassò nuovamente il collo. Rifletté. 
«Sta sempre per conto suo; ogni tanto col fratello»
«Oh. Come mai?»
«Ha un carattere un po' strano. Chiuso»
«Quanti anni ha?»
«Undici»
Danae terminò la torta in quel momento. Non aveva alcuna briciola addosso. Sbatte le palpebre. Guardò la collega. Guardò il ragazzino, avviato verso il caseggiato. 
«Ah. Non va d'accordo con gli altri?»
Sandy negò, agitò un poco i palmi pallidi, tozzi. Un bracciale di corallo le stringeva il polso strozzando la pelle. Non tintinnava. Troppo polso e troppa pelle. 
«Sì, per carità. È solo parecchio riservato. Nei gruppi tende a fare tutto da sé, quando una cosa non gli interessa, semplicemente si scansa un metro più là e trova qualcos'altro con cui passare il tempo. Diciamo che più che non andare d'accordo... evita di intrattenere grossi rapporti»
«Pensi abbia qualche problema?» Domandò Danae, avvolgendo meglio le spalle appuntite nella sciarpa di stoffa morbida e bella. 
Sandy rise, un mezzo gorgheggio. 
«Oh, tesoro, tu vedi problemi ovunque»
«Magari può essere utile per risolverli»
«Il giovane Ritter è taciturno, niente di più. Un po' di silenzio non ha mai ucciso nessuno» una pausa, forse appena troppo allargata per risultare neutra «è molto intelligente» Si alzò, portando dietro la mole benevola del corpo robusto, sollevando con sé, nemmeno fosse un fardello, il seno ampio sulle braccia incrociate.
«In che senso?» Anche Danae scattò in piedi, in una movenza repentina, agile. 
«Non so bene. So che è molto intelligente; dicono più degli altri bambini»
«Ma è un'impressione o... un dato di fatto?»
«Che vuoi ne sappia io, tesoro? Lo dicono e basta. Perchè sei curiosa?»
Danae restò silenziosa per un po'. Fissava la figura esile e decisa di Ritter, più alto della media, più intelligente della media, portare in processione scientifica la propria nuova macchina fotografica. Sorrise, accentuando i segni appesi ai lati della bocca, nonostante i trent'anni e poco più. 
«Non sono curiosa. È lui... curioso. Strano» 
«Vieni, è quasi ora di merenda. Ti faccio vedere come funziona» Sandy tagliò corto, non senza un certo affetto per l'amica e collega. Il campus pomeridiano era un'occasione preziosa per la gioventù dispersa di Corona. Solo alcuni di loro frequentavano le scuole curricolari; molti avevano precettori privati, a minimi gruppi. Altri, maestri in solitaria. Come Eleazar. Al campus venivano coinvolti in sport di squadra,leggevano i libri del Buddha, passeggiavano nei boschi di betulle simmetriche. «Vedrai, lavorare coi ragazzi sarà una grande soddisfazione, sul serio. Sono così pieni di vita, così pieni di positività. Contagiosa»
Danae annuì, distratta; impiegò un po' a distogliere l'attenzione da Eleazar, distante, per seguire la donna alle tranquille mansioni quotidiane. 

«Ehi, coscia-di-morto, quante merende ti sei mangiata eh, coscia-di-morto? Rispondimi coscia-di-morto. A giudicare dal tuo culo moriremo tutti di fame parecchio presto da 'ste parti»
Christian Morris era bello ed aveva un sorriso bianco, spalmato sulla faccia da vincente. A quindici anni, lui vinceva la vita, vinceva le ragazze, vinceva le gare sportive. Quasi tutte quante. Aveva i denti tanto dritti da sembrare finti, i capelli tanto spettinati ad arte da sembrare scolpiti nella paglia e nella seta. Vinceva nelle risate degli amici e soprattutto delle amiche. Poteva dire e fare tutto quello che voleva, doveva farlo. Era il figlio di Douglas Morris, della Morris Motors. Migliaia di cilindri e di miglia orarie, da spruzzare in faccia alla gente. Come adesso. Con quel sorriso da atleta spalmato.
«Allora coscia-di-morto, hai la gola troppo piena di grasso per rispondermi?» Qualcuno dei compagni fischiò a esaltare il sarcasmo finissimo, le compagne sghignazzarono all'unisono, tutte sulla medesima frequenza, tutte col medesimo ritmo.
Lily Wardwell coscia-di-morto teneva la testa bassa; voleva raccogliersi in un solo punto e sparire, le mani al petto, la schiena reclina. Il punto era all'altezza dello stomaco. Odiava il suo stomaco; lo odiava peggio di quanto odiasse Chris Morris. Lily era minuta e priva di forme, un blocco unico, senza curve, incerto, che non si sapeva indossare per niente. Sembrava misera nella sua giacca rossa, che era tanto bella quando l'aveva scelta con sua madre, e ora era tanto misera che non l'avrebbe scelta mai. I ragazzi erano cacciatori, le ragazze levrieri. Christian, un cavaliere. Lei, il maiale. Non reagiva, li guardava ogni tanto, mentre sfilava a rallentatore sotto i loro sguardi di diamante. Avere sedici anni non era mai stato così brutto e così lungo.
«Cosciadimortooooo, dove vaaaaai? Non me lo dai un baciooooo» Albert Bentley, la richiamava con una cadenza crudelmente melodiosa. I Bentley, della Bentley Arms. 
«Attento Benty che se la baci magari ti mangia» Myrcella Von Brachel, il miele profuso attorno al faccino di bambola, due incantevoli labbra a cuore, snella come una falce di luna. Von Brachel, come Von Brachel, noto regista concettuale molto amato negli ambienti artistici dell'upper-class. Myrcella pareva l'unica femmina autorizzata a esprimere commenti autosufficienti, commenti capaci di produrre reazioni ilari, seppure moderate, tra i maschi della compagnia.
«Attirala con la merenda, vedrai come corre, su quel culo»
«Ma non ti pesa, eh?»
Lily sospirò, contrasse la bocca. Il mento tremava. Il celeste spazioso, generoso, delle ombre sulle piume dei gabbiani la mattina. Triste, arrabbiata. Con se stessa, con la torta che stringeva tra le dita corte, indurite dal violino. I capelli ramati si infiammarono nel sole, il sole la accese, mentre cammina via, nelle scarpe sportive. 
Le loro voci erano un coro infinito ed indistinto. Simile all'inferno indistinto ed infinito d'un paradiso pieno di cervi argentati ed un solo cinghiale. Coscia di morto. I Wardwell erano impresari di pompe funebri, arricchitisi con le pompe funebri, famosi per le pompe funebri. Coscia di morto, quindi. Cosce grasse, casse da morto. Tutto il resto. 
Da anni. 

Vento e tempesta. 
Schiocchi di ossigeno dietro le colline, quasi si preparasse a sorgere qualcosa di enorme; quasi fosse in procinto una rivelazione. Eleazar scattava, regolava il diaframma trattenendo il respiro, la velocità di scatto. Non controllava mai i risultati, o quasi mai. Sentiva che non c'era bisogno. 
Sentiva di capire la luce. 
Circondò il caseggiato. 
Stava gran parte del tempo per conto suo, è vero. Le rare volte in cui lo avevano provocato, aveva sfoderato uno sguardo verticale degno del permafrost. Non provava niente contro le persone, ma non le sentiva così bene come sentiva la luce ad esempio. O la matematica. Il pianoforte. 
Procedeva, leggero, allungato, calciando un ciottolo e riavvolgendo con le pupille il filo liquido di una lumaca nascosta. Il viso affilato, dondolava in un'espressione un poco crucciata, intenta e distratta al contempo. 
Vento e tempesta. 
Scavalcato l'angolo, Lily sedeva sul gradino, a sei, sette metri da lui. Fuori luogo forse. Sempre.
Lily gli esplose nell'occhio. La giacca rossa tenuta a coprire le gambe raccolte, il rame dei capelli, la pelle imporporata nel freddo; sopra due teli artici d'erba e di cielo. Valutò la cosa. Non fu certo gli piacesse. Le dita si contorsero sulla macchina, dubbiose. Si avvicinò. Uno, due passi. Non era certo gli piacesse. Non era armoniosa, pelle-rame-rosso su erba-cielo. Mancava di coesione. Batteva una nota troppo lontana dal do centrale, in una melodia eseguita poco al di sotto del do centrale. Non era certo gli piacesse. No. 
Lily divenne una sfera, simile ai ricci disperati contro le gomme dentate delle jeep. Piangeva. Eleazar non cambiò espressione quando capì che piangeva. Nemmeno un po'. Inclinò il capo a sinistra. D'improvviso pensò, seppe che non era un paesaggio. Che il pianto l'aveva sottratta al paesaggio, l'aveva resa altro. I colori non contarono più, contava l'altro-dai-colori, ora. 
Si avvicinò di nuovo. Una forma di cautela priva di esitazione ne tratteneva i gesti d'una grazia angolosa, sicura di sé. 
Lily alzò il viso intinto nelle lacrime mentre Eleazar alzava l'obiettivo. 
I gabbiani negli occhi di Lily, dispiegarono le ombre celesti in un'unica vampa. Ritter spuntò oltre l'obiettivo, le pupille dilatate in quei gabbiani al decollo. Restò fermo, interdetto. L'altro-dai-colori, l'altro-dal paesaggio s'agitava tutto in fondo a quegli occhi umidi, perplessi e feriti. Feriti. Eleazar abbassò la macchina; nessuna smorfia ad animargli i nervi sotto la faccia, solo una muta e meditativa contemplazione. 
Brezza e sereno. Brezza e sereno 
«Che c'è? Che vuoi?»
Lily, un po' sorpresa, un po' timorosa, affondo le unghie sulla stoffa della giacca. Fissava quel ragazzino di undici anni, stranita e piena d'un dolore non differibile. Definibile, non differibile. 
Eleazar sbattè le palpebre. 
«Farti una fotografia»
Lily passò dalla sorpresa alla meraviglia. Si strofinò le gote col dorso della mano. 
«Perchè?»
«Perchè ti trovo interessante»
«Cosa significa interessante?»
Eleazar mosse le dita sui bordi della digitale, battendo su tasti immaginari per comporre una risposta, convinta a precisa. Si strinse appena nelle spalle, distrattamente. 
«Fotografavo le colline. Ti ho vista qua e sono diventate noiose»
Il celeste negli occhi di Lily tracimò, invase le orbite, occupò ogni centimetro disponibile. Continuava a coprire le gambe, a nasconderle nel sudario della propria giacca-non-più-graziosa. Le sue cosce. A costo di crepare di freddo. Inghiottì. Boccheggiò appena.
Ritter pensò che diventava sempre più interessante. Conosceva di nome e di fama Lily Wardwell. L'aveva riconosciuta, senza che ciò smuovesse d'un millimetro la sua attenzione sfacciata. Era interessante, tutto il resto irrilevante. 
«Allora?» La incalzò, interrogativo, quasi professionale. Freddo, e assurdo. 
«Sì... sì, va bene» Lily annuì rapida, impacciata, toccandosi i capelli, mettendoli dietro le orecchie, tornando a liberarli sopra le tempie. Le spalle le tremavano un po' per il vento e la tempesta di Maggio «credi che dovrei sorridere?» Domandò, dubbiosa, poco naturale. 
«Credo che dovresti metterti la giacca prima di morire assiderata»
Lily rise, sorrise. 
Era un bel sorriso. Eleazar aveva un modo suo di pensarlo, non pensava il bello; pensava che rendesse la fotografia più rosa, e più parlante. Rosa e parlante. Nonostante il naso tozzo, il profilo a grana grossa. Era rosa, parlante, interessante. I suoi occhi erano meglio di un panorama. 
Cose che meritano di essere nelle fotografie. 
Meritano di essere fotografate. 
Eleazar scattò in quel momento. Catturò la preda. 
Sorrise, anche lui. 
«Vuoi vederla?» Propose. 
Lily continuava a sorridere. 
«Non importa»
«Giusto» Sentivano di capire la luce. 
«Sei uno strano tipo» La ragazza assunse un'espressione dolce, ripristinando con la propria sicurezza di sé, il senso delle età diverse. 
Ritter fece spallucce, tranquillo. La questione non lo toccava. 
Poco sembrava toccarlo. 
«Può darsi»
«...»
«...»
«Grazie»

Si salutarono con un semplice gesto della mano. 
Vento e tempesta. 
Vento e tempesta. 

Lily Wardwell morì a sedici anni, quattro giorni dopo quella domenica pomeriggio, ingoiando una scatola intera dei sonniferi della madre. L'avevano trovata in bagno, addosso una maglietta grande, il trucco della sera precedente appiccicato dal sale alla faccia rosa. C'era un biglietto, scritto con la matita per le labbra, di getto. Chiedeva scusa ai genitori, diceva 'non è colpa vostra, è colpa mia. Vi voglio bene, mi dispiace'. 
Nessuno ne parlava, tutti lo sapevano. Quando la notizia si diffuse, l'aria profumata tra le mura di molte tenute, di tutte le tenute di Corona si irrigidì improvvisamente. Qualcuno si guardò, qualcuno commentò nel segreto delle frequenze cortex, si informò morbosamente e nascostamente. Erano stati addestrati a questo. Addestrati ad anni ed anni di agi e compromessi sociali. Addestrati e pronti. Ammortizzare, compiangere, ritoccare e insabbiare. Celebrare. Insabbiare. 
Insabbiare. 
Potevi vendere il disagio che provavi davanti all'idillio violato come una specie di dolore contrito per la giovane perdita. Potevi venderlo così, giusto e appropriato. Dire che era insensata, la perdita, terribile. Insensata, soprattutto. Dolore contrito ed insabbiare. 
Eleazar si trovava a casa, quando apprese la notizia, da due domestiche che stavano commentando in cucina. Di venerdì. Rimase immobile a fissare la data di scadenza di una bottiglia di latte. Se la sarebbe ricordata per anni, per sempre, quella data. Lo sfondo grigio dell'etichetta. L'inchiostro blu. La sensazione umida e fredda tra le dita calde di pianoforte. Ingoiò. Dilatò lo sguardo verde fino ad affogarlo nel bagliore asettico del frigorifero spalancato. I suoi polmoni, senza che lui volesse, smisero di respirare. 
Il suo stomaco, senza che lui volesse, si contorse nella nausea. 
Il suo cuore, senza che lui volesse, si contorse nella bile. 
Il suo cervello, senza che lui volesse, ricostruì il pelle-rame-rosso su erba-cielo. Ricostruì il rosa parlante, ricostruì l'altro-dai-colori. Il sorriso. 
La morte. E la morte. 
Il rame, il rosso, la pelle, il rosa, il sorriso. E la morte. 
Il rame, il rosso, la pelle, il rosa, il sorriso diventarono qualcosa di più impegnativo. Diventarono una persona, diventarono lei, diventarono Lily Wardwell, suicida a sedici anni nel bagno di casa propria. 
Sentiva un granchio enorme e nero accartocciargli lo sterno, il petto. Rimase tanto immobile che le domestiche non lo notarono neanche. L'espressione fissa, senza curve emotiva. Le mani tremavano forte. Vento e tempesta. 
Vento e tempesta. 
Posò il latte, le dita congelate. Chiuse il frigorifero. Andò in camera, attraversando il silenzio composto della villa, stanza dopo stanza, senza incontrare nessuno. Con cui scambiare uno sguardo o una parola. 
Si mise sul letto. Accese il tech-reader. 
Le sue articolazioni, senza che lui volesse, si procurarono la fotografia. 
Senza che lui volesse, i suoi occhi la stavano guardando. 
Il granchio enorme e nero crebbe a dismisura stritolando l'intero spazio del suoi pensieri, del possibile, del concepibile. Stritolando e sgretolando ogni cosa. 
Ore dopo, le sue gambe intirizzite, senza che lui volesse, lo portarono a cena. 
Il suo corpo, senza che lui volesse, lo accomodò sulla sedia. 
Le sue orecchie, senza che lui volesse, ascoltarono conversazioni inutili. Conversazioni non pertinenti. 
Sua madre torturava un gamberetto nel piatto. Suo padre mangiava. Elia giocava con Elena, fabbricandogli animaletti di pane. Elena rideva. 
Eleazar, senza volerlo, li guardò, a testa bassa. 
Non succedeva niente. 
Possibile?
Si aspettava un cambiamento dei colori, un cambiamento nei volti. Si aspettava di avvertire il male nell'aria, di veder crollare le pareti, le maschere, si aspettava che i bicchieri nelle vetrine esplodessero, il tetto si spaccasse. Si aspettava qualcosa. Qualunque cosa, ma qualcosa. Qualcosa. Qualcosa. 
Si alzò. E si alzò volendolo con tutto se stesso. 
Sbattè la sedia in avanti, uscì dalla sala da pranzo volendolo con tutto se stesso. Vento e tempesta. Il corridoio, l'atrio. Spalancò la porta, scese le scale. Si fermò.
Era Maggio, la sera di cobalto, il vento dal mare che respirava in lontananza seminava caos tra le foglie, scompigliava la perfezione dei giardini, violava le aiole fiorite. 
Seminava il furore. 
Tempesta. 
Strinse i pugni, e strinse i denti attorno a quell'immagine, fissa nella sua mente. A quella fotografia. A Lily Wardwell, una domenica qualsiasi, in quel posto qualsiasi. Strinse più forte. 
E capì la bellezza. Capì la bellezza e la rabbia.
E le capì assieme. 
Come capiva la luce. 
Vento e tempesta. 



Sandy chiamò a raccolta i ragazzi del gruppo del campus. Era sabato. 
Indossava un'altra gonna, scura, ma sempre ampia, sempre di stoffa pesante. I capelli castani le contornavano il viso largo e concentrato. Affluirono alla spicciolata, sotto lo sguardo della responsabile; uno sguardo rincresciuto, umano in modo mirabile. 
Danae, a braccia incrociate, osservava la scena seduta accanto alla collega. 
I ragazzi presero posto, a gruppi, riempiendo via via le sedie libere. Avevano un'aria normale, usuale, annoiata che stonava con l'espressione particolarmente severa e contrita di Sandy. 
Eleazar stava quasi in ultima fila. Era molto alto per la sua età. Il maglione di cotone azzurro piegato sui gomiti esili, il viso distante, distratto, sgualcito da una stanchezza strana. 
Adulta. 
La macchina fotografica appoggiata accanto, assieme alla borsa con il tech-reader, il pad e le cuffie. «Non vi tratterrò molto» Iniziò Sandy, cercando di richiamare la loro attenzione ondivaga, divisa fra i display e gli auricolari «Non vi tratterrò molto, ma volevo spendere due parole su quello che è disgraziatamente accaduto alla vostra amica Lily» Calò controvoglia il silenzio. Qualcuno continuò a bisbigliare disinteressato. Eleazar avvertì il filo di nervi dentro la colonna vertebrale vibrare come la corda di un arco. Stridere. 
Quello che è accaduto. Disgraziatamente. Amica. 
Accaduto disgraziatamente. Amicizia. 
Disgrazia? 
Inghiottì. Vento e tempesta. Le spalle tremarono. 
«Lily mancherà molto a tutti noi. Era una bellissima persona. Questa terribile sciagura senza ragione ci addolora e ci sconvolge»
La sentiva, la rabbia. Fremere sulla punta delle dita. Gocciolare tra le sillabe della parola 'bellissima', della parola 'sciagura', a separare le parole 'senza' e 'ragione'. Il viso pallido, occupato dal verde ingombrante, scomodo, di quegli occhi verdi senza cedimenti, senza macchie né paure, beveva la luce disteso da un sentimento di sorpresa aggressiva. Un sentimento nuovo. Non era mai stato così. 
«... ci addolora e ci sconvolge. La cosa più importante che possiamo fare è non dimenticarla, ricordarla nei bei momenti passati con lei, per le cose belle, invece che per la sua fine insensata »
Eleazar strinse i pugni. Vento e tempesta. La mascella affilata tremava in un moto impercettibile. 
La cosa più importante. 
La cosa. Più importante. È ricordarla. 
Ricordarla ricordarla nei momenti in cui piangeva, circondata da eserciti di puttane e figli di puttana. Cozzare la testa sul profilo della sua morte, snudare gli angoli della realtà, perchè Lily aveva sedici anni, solo sedici anni in un sorriso enorme, un paio d'occhi che toglievano senso alle colline. Smettere smettere smettere di dire 'insensata', e cominciare a chiedersi il motivo, affrontare il motivo, la verità di un mondo di merda laminata d'oro. Cercare un responsabile. I responsabili, gli assassini, gli stronzi. Affrontare gli stronzi, indicarli, riconoscerli; un fottuto nome, un fottuto cognome a tutti quanti. 
Smettere di dire insensata. 
Smettere di proteggersi. 
Smettere di vivere in una bolla di cristallo ipocrita, odiosa. Schifosa. 
Le pupille grandi annegavano nel vuoto. Era calmo e furente. 
La nausea. Vento e Tempesta. 
Il cuore, avvolto nello sterno, sbatteva contro le ossa come un uccellino impazzito. 
Un uccellino affamato, spaventato, riempito dalla musica della migrazione, costretto tra le sbarre infrangibili della fisica. 
Il discorso terminò. 
Eleazar si alzò scivolando sul grumo che gli scavava la gola, sino allo stomaco. Storse la bocca. Si guardò attorno, in un getto di disgusto inesausto. La pelle delle sue mani delicate, lievi come ali di allodola, aveva una consistenza diversa, nuova mentre la sfregava con le punte delle dita. 
Fu in quel momento che lo sentì. Accadde che sentisse. 
La chiamata del risveglio. 
Stavano camminando dietro di lui. Il gruppo di Morris. 
Commentavano l'accaduto. 
Non servì niente di chiaro, niente di preciso. Bastò che il giovane Chris, sotto la proprio aureola bionda, concludesse in gloria una frase di Bentley. 
« … ed il colmo è pure che quella palla di lardo è morta perchè s'è mangiata troppi sonniferi. Mangiata. Cazzo... »

Ci sono momenti in cui capisci. 
Eleazar lo capì lì. Aveva capito la luce, aveva capito la morte, aveva capito la bellezza. La rabbia. Nella vita non gli sarebbe servito di capire nient'altro, quello che esisteva da comprendere lo comprese nel maggio dei suoi undici anni. Nel corso dell'esistenza, avrebbe finito soltanto per sviscerarlo più a fondo, per definirlo, perderlo e ritrovarlo. La luce, la morte, la bellezza, la rabbia. Il vento. La tempesta. 
Si voltò. 
La mossa fu placida, ma spietatamente definitiva. Inclinò il capo da un lato sotto il peso d'un sorriso in ascesa lenta. Un sorriso nuovo. Ripido. Gli affilò il verde degli occhi mentre lo snudava in faccia a Morris, dopo due passi leggeri. Lo snudava assieme alla curva delle labbra, una coppia raffinata, cinica di lame giovanissime. Christian non ebbe la prontezza di chiarire che si trattava del piccolo Ritter. E benchè il 'piccolo' Ritter fosse alto quasi quanto lui e lo affrontasse muso a muso, non ebbe occasione nemmeno di notare quel sorriso scosceso e spigoloso. 
Il pugno arrivò senza preavviso. Senza troppa lealtà, correttezza sportiva. 
Eleazar lo colpì in faccia con una forza imprevedibile per suo corpo sottile. Poi gli saltò addosso. E continuò a colpirlo, colpirlo, colpirlo alla cieca, ma con straordinaria precisione crudele. Voleva fargli del male, più male possibile. Mirava a rompere, a spezzare. Rotolarono a terra, in mezzo alle grida stridule della Von Brachel. L'energia nelle braccia, nelle spalle di Ritter era proporzionale a quella che, da sempre, addormentava in sé stesso. Nonostante il fisico sportivo, Christian Morris finì con la faccia sfasciata, sotto le nocche, le unghie di Eleazar.
Eleazar non cambiò mai espressione, schizzato di sangue, lanciato su un fiatone liberatorio. Eseguì il proprio rito dal principio alla conclusione. 
Li separò Danae, dimostrando un vigore imprevedibile date le proporzioni minute. Sandy chiamò i paramedici per Chris, in mezzo ad un cerchio di volti di cera esterrefatta. 
La società di Corona avrebbe sicuramente provveduto ad insabbiare anche questo. 
A tutelarsi da se stessa. 
Qualcuno avrebbe mormorato del sangue Cavendish. Qualcun altro avrebbe iniziato a ricordare, miracolosamente, quanto strano fosse sempre stato quel bambino. Da principio. In origine. Non un problema di crescita, non un problema di ambiente. 

Non un loro problema. 


Herzog Ritter amava guidare le proprie automobili. O almeno, lo si poteva ipotizzare dalla scarsa frequenza con cui ricorreva all'autista. Fuori, era calata la sera. Accanto a lui, seduto, Eleazar osservava l'avvicendarsi dei lampioni sul bordo della strada perfetta e deserta. Aveva il maglione chiazzato di scuro. Le mani fasciate. Non parlavano dalla partenza. Nulla di strano, Herzog era piuttosto parsimonioso nell'elargire se stesso ai figli. Eleazar nell'elargire se stesso al mondo intero. Era occorsa però tutta l'influenza, la diplomazia del vecchio Ritter per evitare una denuncia da parte dei Morris, nonostante il bel viso di Chris fosse attualmente dissestato come un morbido campo erboso dopo una partita di polo. 
Herzog infilò un'engine in bocca. La accese. Fumava lentamente, a tiri calibrati. Il volto era placido, paziente della pazienza della distanza. Degno di una statua, un idolo silente e terribile. Herzog incuteva solitamente il timore che incutono gli uomini di successo, quando padroneggiano il loro successo con tranquillità assassina, senza farsi dominare dall'entusiasmo. 
Era rilassato sul sedile. 
Parlò scrollando la cenere. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
Solitamente il giovane Ritter discorreva poco con suo padre. Quando accadeva, riguardava i cavalli, riguardava il pianoforte. Qualche libro. Non riguardava mai nessuno di loro due. I sentimenti di Eleazar per Herzog erano storicamente stati piuttosto prevedibili. Curiosità. Un'ammirazione vaga, poco chiara, quasi necessaria e mai sufficientemente intensa da sostenere una qualche forma di affetto. Trovava che facesse esattamente quello che doveva fare, come genitore, come essere umano. Prima di quei giorni non s'era mai interrogato in merito. E si stupì di quanto potesse nausearlo, opprimerlo, la coscienza lampante che in suo padre ci fosse qualcosa di sbagliato, enormemente sbagliato, di quanto potesse portarlo a mordersi le labbra e serrare le mani, pure adesso, al posto del passeggero, nonostante la mancata esperienza di qualsiasi trasporto. Si sentì preso in giro, beffato, imbrogliato. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
Eleazar tacque pochi secondi. Percepì nel dolore delle nocche ferite, nell'odore dell'alcol, misto a sangue indelebile ed interni ricchi, un nuovo se stesso. O il se stesso reale. Emerse dal sangue, dall'odore chimico di disinfettante, delle tappezzerie lussuose , altri tre elementi che avrebbero continuato a caratterizzarlo sino alla fine. 
Prese la domanda di suo padre, e nella domanda isolò una parte. 
La parte che gli serviva a varare una guerra. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
« … Alla prossima lo porto dietro una siepe »
Herzog si voltò, per la prima volta dalla partenza. E per la prima volta da quando Eleazar aveva memoria (la sua memoria impressionante) una piega imprevista sulla faccia del padre spezzò la cenere dell'engine, sparpagliandola in basso.. Nient'altro. 
L'uomo ricominciò a guardare la strada. 
« Perchè ? »
Non c'era bisogno di specificare. Herzog e il proprio secondogenito erano soliti capirsi immediatamente. 
« Warden. Lily Wardwell »
« La ragazza degli Wardwell? Dei beccamorti? »
Silenzio. Eleazar appuntò la bocca a sinistra, socchiuse gli occhi. Sorrise. 
« Almeno loro li beccano da morti »


mercoledì, maggio 29

I name this ship the Tragedy, bless her and all who sail with her







Ha vissuto molte insonnie per i viali di Capital City. 
Insonnie diverse. 
Quando era giovane, quando era molto giovane ad esempio, un poco sceglieva deliberatamente di non dormire; gli piaceva la notte, quel silenzio che sapeva di pioggia, così stranamente muto, sincero, perché tacevano tutte le macchine, tacevano i passi, il caos della città. E la città sembrava tanto simile ad una foresta pietrificata, stupita di svegliarsi sul mare. C'è qualcosa di ingenuo nel metallo dei grattacieli all'alba, qualcosa di mistico, di espanso. 
Quando era giovane, molto giovane, ad esempio. Quando William era vivo. Quando traversavano i quartieri a piedi, per ore, tornando a casa in un buio elettrico; spingendosi a turno giù dai marciapiedi, nelle pozze d'acqua riempite di cielo. Una bottiglia di whisky passava di mano in mano. Le risate tirate via, le risate trattenute, con la forza sciocca di essere il padrone del mondo, di avere tutto davanti. Migliaia di parole, migliaia di discorsi: ipotesi lunghe chilometri. Uscire dal laboratorio di Larousse alle tre, dopo ore ed ore di esperimenti, dentro una pelle d'oca fenomenale; sbattere la porta frustrato, volarla esaltato, esitare sull'uscio in preda ad un tuffo di vuoto, un tuffo di verità acerba. 
E capital City lo aveva visto crescere. Le albe sul tetto di casa, sotto le parabole condominiali, con Keynard; appoggiati alla balaustra, gomiti arrossati, sorrisi idioti, un paio di facce lisce su cui la luce s'apre a ventaglio. Le camicie agitate in aria dal respiro dell'oceano, che pareva di stare sulla prua d'una barca, sulla prua del multiverso. 

Capital City, allora, lo aveva visto felice. Forse. Allora non sapeva che quella era la felicità; ma era la felicità. È una prerogativa della felicità apparire come l'attesa della felicità. 
Dietro di sé, Corona, la sua famiglia tragica senza tragedie. Davanti a sé, la guerra, una guerra di cui non sospettava ancora nulla. Tra Corona e la guerra. L'università, Vincent, le pubblicazioni, le manifestazioni, la certezza di essere predestinati.
William. 

William. Non si può amare una persona e pretendere di giudicarla, Ritter. Nessuno ti aveva insegnato a non giudicare quelli che ami; il risultato è stato non riuscire ad amare nessuno, per il bisogno di giudicare sempre, tutti quanti.
E quando capitò di amare, amasti molto male. Amasti sbagliato.
Non puoi giudicare quelli che ami, se li ami.

Ha vissuto molte insonnie per i viali di Capital City. 
Ricorda volentieri le insonnie adolescenti, del ragazzino, del ricercatore. Le ha appena ricordate, in una carrellata sfumata, soffusa e senza voce.
Le altre, non le ricorda e se le ricorda, preferisce fingere di averle dimenticate. 
Dimesso dalla clinica, tornato dalla guerra. La droga, l'alcol, lo schifo, il lutto insensibile, l'abbandono insensibile, un niente che si contorce su se stesso gemendo gemiti privi di suono.
E tu lo guardi dall'esterno, un po' come in sogno, un po' come fosse la tua vita, da fuori.




Mattina presto.
Eleazar è seduto davanti dal General Hospital, nel chiosco. Un bel sole; Ritter indossa abiti umidi, reduce da una notte di pioggia. Gli ombrelli bianchi del locale sono agghindati coi colori dell'alleanza; fremono fieri nella brezza. Davanti, tiene una tazza di caffè scuro e un piatto di uova sintetiche aromatizzate al bacon.
Non le voleva, le uova, non le mangerà; la ragazza alla cassa ha insistito una volta di troppo, ricordandogli che in occasione dell'Unification Day, con un caffè la gestione offre gentilmente la colazione ed è proprio privo di senso, sa signore, prendere solo il caffè se la colazione è gratis assieme al caffè, vede, è anche scritto lì, sul menù del giorno, abbiamo le migliori uova sintetiche di queste parti!
Mezza città, mezzo Core è in vacanza. Non festeggerò mai questa festa; riflette, accostando alle labbra la plastica termoresistente rosso/blu/stellata della tazza. Non festeggerò mai questa festa. Non si tratta di dispiacere, ovvio. Constatazioni. 
Accende un'Engine. Gli occhi verde ossido si ritraggono tra le ciglia. Potrebbe attivare il touchscreen integrato al centro del tavolo, per consultare le notizie del giorno, tra uno sponsor pubblicitario e l'altro. Tamburella le dita. La fede all'anulare.
No, meglio di no. Preparativi per la parata. Preparativi per i preparativi. Gente, gente ovunque. Traffico in aria, per terra. Un brulicare entusiasta. La guerra è finita da quattro anni. Il bisogno collettivo di sapere che ha avuto un senso, il bagno collettivo nel bisogno di un senso... Lo legge nei visi radiosi delle mamme, nel vociare sconclusionato dei liceali in branco, degli anziani a braccetto, dei soldati in uniforme, nell'inno declinato in centinaia di forme differenti, su centinaia di canali differenti, le suonerie dei pad, le holotrasmissioni, gli impianti audio delle auto ferme al semaforo, lo spazzino che canticchia.
La guerra è finita da quattro anni... il bisogno collettivo di sapere che ha avuto una fine. 
Ingoia. Il vento carezza i capelli e gli angoli della bocca, sollevandoli in un'unico, lento movimento. 
Un brivido marcia lungo la schiena, sotto la camicia di seta sottile, sotto la pelle pallida; il brivido puntiforme, una sfera solida, scende le vertebre a gradini, toc, toc, toc, simile nel meccanismo ad un giocattolo infantile. Suona le ossa come uno xilofono. 
Una fine.
Siede a quel chiosco; se la gente cogliesse l'invisibile, scoprirebbe un gomitolo d'angoscia pulsante assopito sulle sue gambe. La guerra non è finita, perchè festeggiare? Non gli interessa, in verità. Vincitori, vinti. Conservazioni, rivoluzioni. No.
Gli interessa sua moglie; gli interessa la sua bambina (le sue bambine?).
Ingoia, ancora. Mura a secco la tensione. Un fiotto di nervosismo infetta il cervello. Soffoca la sigaretta. Strofina le tempie. Le labbra sbiancano in un crampo labile. Dalla tasca estrae un flacone ambrato di medicine. Apre. Agita. Butta giù due pasticche nel caffé raffreddato. Larousse ha prescritto lo Zyploclorid: un accurato, accorato programma per la disintossicazione da blast. Ritter ci ha guadagnato una nausea perenne, una perenne sonnolenza, una costante irritabilità, mal di testa, sbalzi di temperatura, sbalzi d'umore: una specie di donna incinta sotto mentite spoglie. Con la morfina sarà più complicato; lo sa. Sfrega la faccia; la mossa elegante, stremata.

Dov'era il 29 maggio 2511, mentre la guerra finiva senza di lui? 
A Serenity. La guerra finiva per tutti, non per quelli nella valle.
Ricorda di aver camminato per miglia, nel sole marcio, nella nebbia tumida di terra, di sangue, di terra lorda di sangue. Una valle ricoperta di morti, in modo uniforme. Mai il cielo gli era sembrato tanto distante e incosciente, tanto freddo. Pulito, spietato. La canna del fucile batte sulle scapole sporgenti, la medaglietta batte sullo sterno. Un suono comico, simile alla latta deserta d'un barattolo a perdere. Grigio, viola, un rosa malato, ancora grigio, ancora viola, ancora rosa. Qualcuno fruga tra i cadaveri, qualcuno piange. Colpi in lontananza. Contendersi i polsi dei morti con gli sciacalli: tu cerchi un battito cardiaco, loro un orologio. 

29 Maggio 2515. Accende un'altra sigaretta. Con calma composta. Le bandiere, l'entusiasmo. Il rosso, il blu, il giallo. Siede con il proprio sapere, la propria coscienza. Ineluttabile. La propria fiducia, anche. In frangenti del genere, devi avere fiducia. Si fida di Sterling. È arrabbiato, è furioso, è stanco. La odia. Si fida di lei. Del suo ispirato discorso di nozze. Delle promesse evitate da entrambi, da entrambi  ostinatamente mantenute.
Finisce il caffè. Fissa il mare. 
Conosce quello che succederà, oggi pomeriggio. Il futuro, tra una dozzina di ore. Stragi. Vendette, attentati, carneficine.
Cosa ne pensi, Ritter?
Penso che si raccolga il seminato. La morale non esiste, esiste la storia. È la storia a giudicare e giudica col rigore di una scienza. Non c'è etica nelle reazioni chimiche, non c'è etica nella storia dell'uomo, solo fatti che hanno più o meno ragione di accadere. 
Nonostante ciò, se esiste un inferno tu ci finirai.
Ci finirà Eir. Rooster. Ci finirà Black. Ci finirà Wright. Finirete nei naraka sotterranei al cosmo, sotterranei alla coscienza, sconteranno la pena contando semi di sesamo per milioni di epoche, incapaci alla parola, trafitti dal freddo, su lastre di ferro arroventato, dilaniandosi a vicenda, mentre il karma suona vittorioso la propria musica.
Un'altra smorfia aguzza, beffarda; passa la lingua sui denti. Scuote la testa.
Lo Zyploclorid gli mette appetito.
Meglio mangiare le uova.
Ordina un altro caffè. 


Hai finalmente imparato a non giudicare quelli che ami. 


martedì, maggio 21

Hallelujah




[Tauron, Madison Ranch, 21 Maggio 2515]


Sono andati a dormire.
Alcuni in un letto, altri sui prati circostanti. L'alcol li ha scortati fedelmente al magnifico epilogo. 
Cecilia è stata portata in camera dalla zia Rooster, rinsavita al ruolo di 'angelo custode' dopo qualche ballo di troppo. Huck e Hyena continuano ad aggirarsi tormentati tra i fondi di bottiglia, una coppia senz'altro curiosa, considerando il completo del dottore e... non esiste una parola adatta a descrivere l'abbigliamento del pilota orbo. Non una parola consona al lieto evento d'un matrimonio. 
Andre nuota felice tra le puttane amiche di Bogart. L'espressione restituisce perfettamente l'idea del momento, in tutta la propria amenità. Cox ha trascinato via Neville (con tanto di velo nuziale in testa), separandolo (con molto dolore) dallo sposo. 

Albeggia. La luce fresca della mattina agita i nastri bianchi che impigriscono ai rami della quercia. Qualche petalo si mischia ai cocci, agli avanzi, all'erba umida (e ad un pungo di riso). Il mattino si colma con calma di limpidezza.
Ritter è seduto al pianoforte. La camicia sbottonata, del tutto, si accascia sugli spigoli del corpo, i cui angoli sono ingentiliti dalle ombre sonnolente delle sei e trenta. Da qualche traccia di sudore ancora tiepido. Le ciglia si intrigano ai capelli, i capelli al verde addensato degli occhi. Infilate dietro l'orecchio, un paio di rose sfatte. Tiene le mani aperte, sospese sulle ottave ingiallite, immergendo le dita nella sbornia indolente, a carezzare l'aria. Fuma, alla fine. 
Eir è seduta sul pianoforte. I ricci anarchici trascendono lo stadio del semplice disordine, della semplice agitazione, disegnando curve pericolose al bordo dello sguardo soffuso dall'alcol, dalla stanchezza. Porta ancora il vestito bianco, ma s'è sfilata le scarpe. Sopra l'abito, una giacca nera; con le code e i bottoni dorati: parte del completo del marito. Ride. Inghiotte un sorso di vino. Si strofina la bocca rossa con il dorso del braccio, finendo con le pupille dentro il riflesso della fede. La perlustra, quasi fissasse una sorta di insetto esotico. 

«Sono troppo sobrio per farlo»

«Checcazzo dici; sobrio. Hai... ballato.... un... un... con Patchouli...coi fiori tra i denti»

«Tango. Un tango, tesoro»

« Tango? Tesoro? »

«Tango. Tesoro.»

«...E tu saresti troppo sobrio per...»

«Lascialo stabilire all'esperto. Ho una laurea in medicina»

«E io ho una laurea in alcolismo»

«Sterling, era una battuta atroce»

Ritter ride. Sterling soffia, inghiottendo dal bicchiere e prendendo a mordicchiare il bordo.

«Puttana... Istrice! Puttana istrice»

Gli sistema la rose dietro l'orecchio. 

«Meno parlare, più vino, donna di poca fede»

Eir inclina il collo della bottiglia finché Eleazar non s'accosta con la bocca, ingollando tre sorsate consecutive. Un respiro. Tentenna le nocche. 
Guarda la moglie. Sorride, la curva scura sotto lo zigomo fa il paio con le virgole opache sopra le guance, a vessillo di un'indomita insonnia. Respira. Schiarisce la gola. 

Inizia a suonare. Nonostante lo stato pietoso, le mosse scivolano sui tasti, eleganti, persino appassionate.  Senza perdere di grazia, ondeggia un po' con le spalle magre, un po' troppo con il capo spettinato. E soprattutto, canta. La voce vibra intonata, arrochita negli angoli dalle infinite sigaretta. Un tono alto, spigoloso, ma gradevole. Qualche stecca, e passa la paura. 










"And she tied you to her kitchen chair 
she broke your throne and she cut your hair 
and from your lips she drew the Hallelujah"







(safeport, baraccata, 2514)



05:59 Eleazar [Officina donoway]   « La ascolta, la fissa. Trema leggermente, per il freddo. La guarda senza stancarsi e si rende conto del motivo per cui, probabilmente, non riuscirebbe ad arrabbiarsi neanche se si impegnasse. È eccessivamente bella ed eccessivamente matta. Butta la sigaretta in strada, a metà, facendo roteare al suolo una piccola luce rossastra. Infila le mani in tasca, si avvicina, l'angolo delle labbra trema in un sorriso instabile; non pare furioso, anzi. Sembra che stia preparando lo scherzo più sado-masochista del 'Verse. Eppure c'è qualcosa di infantile, di confuso nella sua ostentata insolenza » Rooster è il minore dei tuoi problemi, da ora in avanti « la rassicura, accorciando le distanze sino quasi ad annullarle. La scruta, dall'alto in basso, accartocciando le spalle sul collo » Bene « prende tempo, spedisce le pupille a pascolare nel buio, poi le riporta, reticenti, su Sterling » Sì « continua, faticando a smorzare la risata che lo agita, ancora, interiormente » Dunque « non sarà semplice, quanto meno » Premetto: è colpa tua. Solo tua « specifica, caricando il colpo in canna. Si riempie di ossigeno, dell'aria pungente della prima mattina, di tutto il proprio sconsiderato coraggio emotivo » Sposami « ecco fatto. Gli pare di aver fatto esplodere otto quintali di tritolo in Carpatia Square »

06:08 Eir [Esterno offcina]   « Il fatto che la proposta sia preceduta dalla specificazione "problemi" è un ottimo inizio. Poi c'è il fatto della colpa. Stupenda. Ed infine, la ciliegina sulla torta, nonchè il nocciolo della questione. Sposami. Le braccia ancora lungo i fianchi, addosso i pantaloni da meccanico, la canotta, una pelle indifferente al clima, una semiautomatica, un cespuglio di ricci in crisi d'identità, gli occhi verdi sgranati, resta lì, come un palo inebetito. Forse il capo si piega un po' di lato, come a rimettere in water l'angolazione della realtà » S... « Le palpebre vibrano sugli occhi, sotto pressione delle sopracciglia e sotto una lieve scossa del capo. Sta per chiedere se è uno scherzo. Ma l'espressione distrutta di Jack e quella assurda sua consigliano tutt'altro. Il cervello tenta di divincolarsi, come un pazzo. Di capire » P... « Perchè. Tenta di ragionare, e non ci mette molto ad intravedere un filo di logica cucito da Jack per tenere insieme i pezzi di Almost Home ed i pezzi della sua vita. Non è stupida. Deglutisce » ...Se no? « Le sopracciglia aggrottate in una specie di terrore strano. Forse più per lui che non per sè. »

06:22 Eleazar [Esterno offcina]   « La guarda arruffarsi in se stessa; dilata gli occhi, rabbrividisce per il freddo, si acciglia appena. Un accigliarsi senza severità, d'una perplessità quasi divertita. Il sorriso si apre in una risata nervosa, incredula, elargita tra i denti bianchi; il viso scavato, le fosse che si incidono sotto gli zigomi, ne accentuano il lato terribilmente imprudente, ilare, avventato » No, dico, ti sto chiedendo di sposarmi; e te lo sto chiedendo in maglietta, a sei gradi di temperatura, nel buco più schifoso del 'Verse, a mezz'ora di distanza da una scampata esecuzione... e tu... tu non trovi miglior risposta di... 'SE NO'?!? « il tono ha un'impennata di teatrale incredulità, di rimprovero recitato, di finta costernazione » Mi devo inginocchiare? « le domanda, in modo ironico. Poi si ferma, serrando le dita dentro le tasche dei jeans. Ripone la risata, schiarisce la voce. Imbottisce il corpo d'ossigeno, espira. Il cuore batte una serie inconsulta di colpi, di scariche a vuoto. Distoglie lo sguardo, per l'ennesima volta, le offre il profilo » Tanto ti avrei sposata comunque, prima o poi « e questa, probabilmente, è una grossa confessione, proferita a mezze labbra »

06:32 Eir [Esterno offcina]   « La maggior parte delle persone nasce con un paio di invisibili antenne sociali. Di quelle che ti permettono di relazionarti con gli altri senza morire, e senza distruggere l'animo della gente passandoci sopra col tagliaerba. A lei devono averle tranciate alla nascita, ovviamente. Ci mette un po' per riprendersi. L'espressione scioccata si tramuta lentamente in un mezzo sorriso, incredulo sul serio. Soffoca un'altra delle sue espressioni assurde. Soffoca l'urgenza di dichiarare la propria diffidenza ufficiale nei confronti dell'isituzione del matrimonio. Soffoca qualsiasi altra cosa. Prende un bel respiro, capendo che non c'è molta scelta. Sta per esibirsi in un "evabene" stressato e rassegnato quando lui si ferma, offre il profilo, e ribalta di nuovo tutto. Le labbra socchiuse, resta fissa nella propria posizione impalata, percossa da un brivido poco evidente, al di fuori. Qualcosa che smuove tutto. Espira forte, d'un fiotto, aggrottando le sopracciglia. China un poco il capo, iniziando a sciogliersi. Un passo verso di lui, a prenderne la mano in un gesto famelico, di appropriazione quasi animalesca. La stringe, annuendo piano, alzando lo sguardo su di lui. » Ti sposo. « Una sorta di fitta percorre la parte sinistra del viso, dall'angolo della bocca alla tempia. Una sorta di realizzazione, probabilmente. Nulla di meglio per alimentare il terrore. Nulla di meglio per ignorarlo »

06:42 Eleazar [Esterno offcina]   « Le lascia la mano, un po' dubbioso, continuando a soppesare l'alba di Safeport. Non la guarda, evita di trucidare la propria dignità sino all'ultima goccia. Il profilo si distende appena, alla sua risposta. Scopre di nuovo i denti, si passa le dita libere in faccia, assottigliando lo sguardo mentre sbuffa un ricciolo d'aria. Nato su Corona, da una delle più illustri famiglie del 'Verse, si trova attualmente a proporre un matrimonio su coercizione, nel posto più losco del sistema, ad un meccanico alcolizzato ed indipendentista. Invierà sicuramente le partecipazioni a casa, collezionando una serie serrata di infarti. Impagabile » Meno male « specifica, per stemperare la tensione che sta arrovellando le sue delicate budella. Tira su col naso, deglutisce, finalmente costringe gli occhi in quelli di lei, in un crollo inesorabile. Ride di continuo, nonostante provi a non farlo, nonostante provi a smettere. Il cervello sta cortocircuitando di brutto »

06:49 Eir [Esterno offcina]   « Percepisce la sua risata, se la sente davanti e dentro, mentre inizia a scuotere i nervi. Non sa se partecipare all'isteria o mettersi a piangere, o prendere a testate il muro. Glielo si può leggere in faccia. Opta per un soave piantar di corna nel suo sterno, le mani che si calano sulle sue spalle » ...Meno male, si. « Concora. Morde il labbro inferiore, dilaniandolo più di quanto non abbia già fatto e sicuramente più del dovuto » Ha anche fissato una data? « Indaga, un bofonchiare semincomprensibile contro al suo petto. Tenta di lasciare che le spalle si abbassino, tenta di riprendersi la faccia. Rinuncia, finendo per appicciarla a lui »


07:02 Eleazar [Esterno offcina]   « Inizialmente resta interdetto, quando lei gli si butta addosso. Poi, la abbraccia lentamente, appoggiandole il mento sulla testa e strofinandoci il volto quel tanto che basta a restituire concretezza al paradosso attuale. Eir potrà avvertire chiaramente che, al di là dell'arroganza, della strafottenza, il cuore di Ritter si sta esercitando in complesse capriole. Le serra le dita tremanti sotto le scapole, attorno alla stoffa della canotta » No. Ha promesso di trascinarti in chiesa per i capelli, però « pausa » Insomma, abbiamo la benedizione di Rooster « 'benedizione' è la parola migliore che potesse scegliere. Il revolver di Jack, un revolver chiamato BENEDIZIONE. Si ferma, freme per la temperatura ostica, la pelle chiara sollevata in un brivido ruvido, evidente » Eir... « mormora, preludendo ad una qualche forma di discorso serio, ora che l'euforia sta lasciando spazio alla realtà. Una realtà disastrosa e spaventosa, seppure vagamente esaltante. In confronto alla morte, almeno » Sei terribile « sbuffa, rinunciando a qualunque altro chiarimento. Sarebbe inutile. Sarebbe stupido. Tanto non ci crede più nemmeno lui » È terribile « ironizza, cercando di farle sollevare la testa con mosse insistenti del viso sulle sue tempie »

07:11 Eir [Esterno officina]   « Alla parola "chiesa" il volto viene attraversato da un'altra smorfia, dalla consapevolezza che le promesse fatte davanti ad un dio a cui non crede varranno poco. Non protesta, il solo fatto di poterlo ancora stringere è assurdo. Alza la testa lentamente, accmpagnata dalla sua, fino a ritrovarsi a quella distanza limite dove il contorno verde dei suoi occhi inizia ad essere sfuocato » O forse è solo...tipo... « Alza una spalla, senza staccare lo sguardo dal suo » Che viviamo. « Ma non ha il tono di un'osservazione passiva ed oggettiva. Ha il retrogusto di chi sfilerà gli artigli, per proteggerla, quella vita. Una matassa costretta assieme di cuore ed ideali. Jack non avrebbe potuto eseguire un lavoro di sutura migliore. Si parcheggia nei suoi occhi, assaporando i brividi dell'alba »

07:22 Eleazar [Esterno offcina]   « La fissa, non replica. Ne assorbe lo sguardo, la scruta in modo strano, cercando di valutarne il viso, i contorni, da una prospettiva quasi oggettiva. La notte che parlarono al ranch, secoli fa. Un altro universo. È da cavare il fiato. Passa la lingua fra le labbra, le arriccia in un'ennesima smorfia sorniona, ma drammaticamente spossata. Si guarda attorno, furtivo. Poi le fa scivolare le mani alle cosce, flettendo appena le ginocchia. Ovviamente la vuole sollevare da terra, d'improvviso » A proposito di 'vivere'...sto crepando di freddo « pausa » E sarebbe un peccato, renderti vedova prima del tempo « nel caso l'abbia presa in braccio, probabilmente, parlerà con un filo si sforzo nella voce. E se la riporterà in officina, tanto per discutere un po' di massimi sistemi. C'è di buono che incassa bene. Gli capita spesso, quando non pensa alle conseguenze » (end)