lunedì, aprile 16

The science of your days is laid bare


La tazza del caffé stiracchia fumo nell'aria al neon della cabina.
Ritter è sdraiato sul letto, la sigaretta piantata in bocca come l'ago di una meridiana. Fuori la nave, c'è Safeport. Safeport con i suoi cieli al sangue.
La testa è una matrioska, dentro fusoliere in metallo lucido. Dentro la stanza. Fra uno strato e l'altro si muovono differenti gradi di realtà, tempi diversi, cose visibili ed invisibili. Chiudere gli occhi non spezza il cerchio alla testa. Un cerchio da cui si sporgono, come dalla volta affrescata d'una cattedrale, le assurdità della sua vita in forma umana. Lo indicano, gli sorridono. Il cuore batacchia in creste viscide, le trascina a galla.
L'illusione del controllo, svanita. Pezzo a pezzo l'armatura si accascia a terra in un rumore graffiante, che ferisce le tempie.È notte? È giorno? Ha senso parlarne? Eleazar si strofina il volto, su cui ombre dense cercano riparo dalla luce rarefatta del locale. Il silenzio spazza attorno ai suoi pensieri, negli angoli, con metodo. Allunga una mano, si procura il caffé, ne ingoia un sorso profondo, il calore ruscella fra gli interstizi dei tendini, delle fibre muscolari. I respiri inarcano le costole, l'addome, sino al ventre scandito di ossa.
La stanza vuota pullula di energie irrequiete.
Eleazar spegne la sigaretta sul tavolo in metallo accanto alla branda, la schiaccia sulla superficie fredda fino a ridurla in un un grumo.
La stanza vuota è percorsa da fremiti sordi.
Si strofina i capelli scomposti, la nuca ed espira. Pensa a ritmo serrato. I cedimenti, le barriere deposte ai piedi della vita una ad una. Sono stato lontano dalle emozioni per anni, sapendo che è delle emozioni che si nutre la bestia, in fondo alle sue grotte di carne. Non mi sono accorto di niente, quando il disastro ha cominciato ad accadere; preferivo non guardare, illudermi d'inconsapevolezza, sperando che il mondo passasse avanti da sé portandosi in mano le scarpe, le orme, con discrezione. Eir ha abbattuto le difese e tutto il resto ne approfitta per tornare alla carica. Pago un prezzo enorme. Sono disposto a pagarlo? Oramai i fatti superano le parole. La logica ha perso. Voglio stare con lei. 
La stanza vuota lo circonda.
La stanza vuota lo assedia. 
Il niente s'espande come un'onda, lo lambisce, avanza, lo sommerge, frange forte sullo spirito. Si ritira, percorre il petto, il ventre, le ginocchia, gli angoli del lenzuolo, il pavimento, la poltrona.
La poltrona...
- Will?
William è seduto in modo abbastanza composto, le gambe accavallate, la maglia di lino sottile in avanzo sul corpo. Prende sempre taglie eccessive. Sempre. Il viso squadrato, tratteggiato dalla barba bionda, è quello d'un primo pomeriggio qualsiasi d'una qualsiasi domenica; dopo una colazione che è anche pranzo e quasi merenda. Gli occhi azzurri, grandi ed accesi come la fiamma d'un fornello lasciato bruciare inavvertitamente.
- El.
Ritter abbassa ritmicamente le palpebre, simili ad ali che ingoiano spazio. Lasciare la terra, il cervello deve lasciare la terra. C'è qualcosa di diverso dallo stupore a sollevare l'angolo delle sue labbra in un sorriso assurdo. È una spietata rassegnazione, priva di meraviglia.
L'attesa di un ospite sgradito.
- Ehi
- Non sembri contento di vedermi.
- Dovrei?
- Bè... come minimo, sono anni
- Sei anche morto, come minimo
- Smettila! Odio quando ti comporti così
- ...
William lo fissa, gli infila lo sguardo penetrante e spalancato fra le tempie. Un grimaldello celeste. Ha ventisette anni. Per sempre. Era ovvio. Lo sapevo. Cazzo, lo sapevo. Dannato imbecille, cretino idiota. La porta. Smettere di considerarlo. Smettere.
- A cosa pensi?
- Al fatto che sto impazzendo, credo
- Perchè?
- Perchè parlo con te, ad esempio
- Oh. Ricominci con questa storia?
- Sono un dottore Will, mi rendo conto di delirare, sai?
- Se sei un dottore curati
- ...Vaffanculo
Eleazar si alza in piedi, scivolando col bacino magro in avanti.
Il muro, un barattolo bianco. Si passa le dita sul volto addensato in giaccio a spigoli. Un arco sismico gli frulla i muscoli delle spalle.
- Tutto bene?
- No, sto andando fuori di testa
- El...
- Stai zitto, zitto! Non chiamarmi per nome
- Ritter, allora
- Zitto!
Sbatte un pugno sul tavolo, inghiotte il cuore, lo soffoca d'ossigeno urgente. Si volta, lentamente, sgranando fotogrammi come chicchi di rosario.
Will lo osserva, ancora, tracciando col compasso un'occhiata triste, infantile e schifosamente protettiva.
Ritter allunga la mano, afferra la weyland, la scarica della sicura; ma mira al centro di quella testa bionda, quella testa bionda che ha cercato spesso fra la folla, in ritardo, che ha avvistato sul pelo d'una manifestazione, che ha seguito oscillare sotto il peso di pensieri banali e meravigliosi, quella testa bionda che ha sorretto dopo le sbornie, che ha strofinato in rari gesti d'affetto.
Il braccio magro trema, imbrigliato in un reticolato di vene vistose. Il fremito percorre il muscolo, simile a un bruco che semini bava di brividi. La mascella vibra, vibra l'angolo della bocca; il bruco giunge al cervello, ci passeggia sopra, lo mastica.
- Oh, cosa fai?
Non è Will, non è Will, il vero Will avrebbe gli occhi lucidi, salterebbe in piedi, impazzito, impaurito, allarmato, annaspando nell'asma, l'asma, quella maledetta asma, per poco non ci resta secco, si dimenticava sempre il ... Arma la pistola, stringe i denti attorno ai propri nervi, attorno ai propri ricordi.
- Vuoi spararmi?
- Zitto
- Vuoi spararmi come non mi sparasti allora?
- Basta!
- Non eri lì, El, non c'eri, non avresti potuto comunque...
- Cazzo BASTA!
Silenzio. 
L'urlo strozza qualunque suono, strangola le fibre dell'atmosfera elettrica. Eleazar ha l'odio negli occhi, un odio che in lui riassume, per mancanza di mezzi emotivi, innumerevoli sensazioni differenti. Odio non odio. Una larva di sudore lambisce la spina dorsale. lo strazia con sadica dolcezza. Rimane lì, la pistola protesa, il metallo che scalpita tra le dita.
- Ti stai proteggendo? 
- Will...
- Da quello che sei veramente?
- ...
- La stai proteggendo?
-...
- Eir?
- ...
- Da te?
- ...
- E' per via di Ellen? 
- Smettila, o ti ammazzo
- Sono già morto, l'hai detto tu, no?
Il sorridente candore con cui William sfodera i denti è un magistrale tuffo nella memoria. In quella smorfia innocente, impietosa, da guerriero sacro, c'è davvero tutto l'amico che Ritter seppellì in terra, sotto la croce bianca, in un sepolcro sperso tra le guglie dell'anima. 
Si appunta la weyland alla tempia pulsante, modula un'espressione di squilibrata rassegnazione, sotto le ciocche sfuse, sparpagliate sopra la fronte umida. L'indice gioca col grilletto, lo carezza. 
- Che fai Ritter? 
Non è Will. Will mi sarebbe saltato al collo, combinando un casino, si sarebbe messo ad urlare, avrebbe persino pianto, forse, per impedirmi il suicidio. Non è Will. La mia mente asciutta e sterile non è in grado di restituire a Will tutta la propria complessità. Tutto quello per cui meritava di vivere. Non è Will. Non è Will. Will è morto, morto, morto. Nessuno lo riporterà indietro. 
Eleazar sospira, gettando la pistola sul letto. 
La furia cieca monta dentro a cerchi concentrici. Sta succedendo di nuovo. Ancora. Non voglio tornare in clinica. 
- Ritter, con me ne puoi parlare. 
Non ci voglio tornare. 
- Posso aiutarti, cristo...
Non ci torno. Non ci voglio tornare. 
- El? 
No.
- El?!
No!
Sopra il tavolo, appeso alla parete, uno specchio riflette l'immagine di Will, perplesso, i tratti incurvati in uno stupore sollecito. E' su quel simulacro di simulacro che s'abbatte il pugno di Ritter. All'improvviso, senza un fulmine ad annunciare il tuono. La furia galoppa nelle arterie, esplode nel dolore alla mano, nel rumore disperato del vetro che si incrina, che frana. 
NO.
Una scarica di schifo alla testa, una scarica di paura, di volontà. La poltrona è vuota. Deserta. Le nocche grondano sangue acceso, lungo il polso, lungo il gomito tremante. Sapore di ferro: il labbro si schiude, spaccato da un morso selvatico.
Ritter ansima, indietreggia, si appende al muro, esausto; lo spirito fuori dalle orbite. 
La gamba ferita di Eir. Il corpo nudo ed esanime di Ellen. La lettera per il decesso di Will. Il corridoio della clinica su Eleria, i primi giorni di primavera, Montezuma che si rotola in un bagno di sole. L'asfalto di Corona a duecento all'ora. Il capitano Volkov che mi regala il suo browncoat per non creparci dentro ('Questa uniforme non è un sudario, niet').  Cerco di immaginare Ellen da giovane, quando era bella e calcava la Casa, la speranza, a colpi di tacco; ci provo e non ci riesco, ci provo e non ci riesco. Cerco di immaginare Eir da bambina, mi chiedo se i suoi occhi siano sempre stati così grandi e quanto spazio occupassero su un viso infantile; non ci riesco. Ci provo e non ci riesco. Cerco di immaginare Will adesso, come sarebbe diventato, se avesse una moglie (era il tipo, sì, era il tipo, Verdiana), ancora i suoi sogni privi di fondamenta, la fiducia incrollabile nel cosmo, una bella casa zeppa di caos, iniziare tremila progetti e completarne nessuno, i figli che mi chiamano'zio', perché Will è un coglione e le idee del cazzo gli sorgono spontanee. Ci provo ad immaginarlo, ci provo; ma non ci riesco. Mio padre tira fuori Twilight dalla stalla, lo consegna ad un uomo, chiama 'vacanza' il macello, mi promette raggiante un cavallo migliore, più veloce, più bello, con prestazioni eccellenti; lo sguardo di Twilight mi domanda quando usciremo di nuovo nel bosco, prima che lo carichino sul camion; cerco di cavalcare Salomè senza sbattere contro il passato. Ci provo, ma non ci riesco. La controlla, la rabbia. Oggi sì. Oggi la controlla. 
In quel sangue, in quel soffocamento, nel buio delle palpebre accartocciate. 
La poltrona è vuota. 
La poltrona è deserta. 
Scivola sul pavimento freddo, ribalta la testa sulla parete. Le lacrime s'aggirano nel suo stomaco, iniziano a proiettarsi sotto la pelle del viso, tra le maglie della gola. Uno stormo sconclusionato di sale ed acqua che cerca un varco. Ed il corpo, in un'alchimia preservativa, tramuta il pianto in nausea. 
Sconta tutto in bagno, con la testa ribaltata nel cesso, la ceramica sporca di tracce cremisi.
La poltrona vuota. Sì. 
Il problema: lo è sempre stata, vuota. 
L'incubo ricomincia. L'incubo non è mai finito. Eleazar evitava solo di dormire.


Non scrivo da lungo tempo. Credi dipenda da ciò che è successo la settimana passata, quando in cabina sulla Monkey ho avuto, dopo anni dall'ultimo caso, una nuova allucinazione. Un nuovo attacco di rabbia. Scrivere mi sembrava un modo di ufficializzare la cosa, ho evitato di farlo finchè non mi sono arreso all'evidenza. Conosco il motivo: deporre a poco a poco l'indifferenza, l'apatia, mi rende vulnerabile di fronte agli antichi nemici. Mi rende nudo. Non ho mai risolto i problemi, non ho mai chiuso i conti. Cosa m'aspettavo? 
Non tornerò a farmi ricoverare. Odio quel posto. 
Dopo una notte intera trascorsa ad ammassare inutili soluzioni, mi sono deciso. Ho rintracciato Crawley. 
Richard Crawley, classe 2484, il peggior stronzo che la professione psichiatrica abbia mai annoverato in annuario. Rammento la sua faccia da cherubino sadico mentre lo radiavano dall'ordine, mettendolo alla porta della clinica su Eleria. Organizzava esperimenti clandestini sui pazienti; suppongo per me avesse un certo ossequioso rispetto: i suoi tirapiedi non m'hanno mai condotto nella camera sotterranea. Mai. Usualmente si limitava ad offrirmi da bere e mi consultava in merito alle sue ricerche, quasi fossi un collega e non un ricoverato. Adesso ha un laboratorio su Safeport, dove continua ad impegnare gli squilibrati da cavie in cambio di soldi o d'una menzognera prospettiva di guarigione. L'ho sempre reputato una persona terribile, ma quanto meno crede in quello che fa e lo fa bene; il suo disprezzo per la vita è proporzionale al suo amore per la scienza. 
Era contento di vedermi. Gli studi in merito alla connessione fra genoma e atteggiamenti psichiatrici che sta svolgendo nella completa indipendenza sono alla soglia del delirio. Gli ho chiesto se avesse mosso qualche passo avanti nella sintetizzazione del siero per controllare la rabbia. Mi ha domandato perché mi stessi interessando. Gli ho confessato di non essere mai guarito dalle psicosi. Gongolava. L'impianto genetico non risulta perfetto, ma quanto meno dovrebbe permettermi di incanalare e arginare la furia. Tutto ciò che mi rende pericoloso per gli altri. Le visioni, gli incubi, rimarranno a popolare le mie giornate. Credo. 

Ho scritto al dottor Larousse, dopo anni. Spero mi risponda. Devo parlargli, per tenere assieme i fili della mia identità. La mia identità che si smaglia sotto il peso della realtà. Non capisco più niente. Niente. 

Non ho detto nulla ad Eir della vicenda (a Vergil sì, però). Non voglio che Eir lo sappia. Se un giorno o l'altro decidesse di andarsene, non posso permettere che abbia remore per pietà, per tenerezza, per paura di condannarmi. La febbre mi scuoteva il corpo quando è giunta a prendermi, in infermeria, e m'ha portato a riposare nella sua camera. Riposare è eufemistico. 
I fatti sono ben al di là delle parole, sì. 

L'altra notte, Neville ed io abbiamo ricevuto un sos mentre tenevamo la rotta per Safeport. 
Lei era dentro a quel maledetto pod. 
Un sepolcro galleggiante. 
Non avevo mai avvertito una paura tanto imperante, globale. Ho rischiato di perderla in quello schianto, ho rischiato di perderla nel lasso di tempo che separava la mia mente dalla verifica dei danni. Le ho appoggiato le mani sul ventre e ho pregato. Nemmeno in guerra, pregavo. Nemmeno con la faccia nel fango e le pallottole ad un palmo dalla testa. Ieri sì. Ho supplicato, sulla sua pelle, ho supplicato, inginocchiando la coscienza e l'orgoglio alle pendici del suo essere, alle pendici della sua carne ; ho supplicato di non trovarle in grembo un'emorragia addominale inarrestabile, meschina, contro cui non avrei potuto fare nulla, coi mezzi a mia disposizione. Qualcuno, qualcosa, mi ha esaudito. 
Mentre dormiva, nel mio letto, sono stato a farle la guardia per ore. 
Il viso tra i suoi capelli, la sua schiena sul mio petto, l'ho stretta tutto il tempo. Quando si agitava per gli incubi, la tenevo più forte. Eir si calmava (ride nel sonno). 
D'accordo, mi arrendo. Il cervello è stanco di combattere. Mi arrendo, si arrende; io voglio stare con lei. Se ci sarà da soffrire, soffrirò; se ci sarà da pagare, pagherò; se ci sarà da rischiare, rischierò; se ci sarà da lottare, lotterò; se ci sarà da cambiare, cambierò; se ci sarà da morirne, ne morirò. 
Soffriremo, pagheremo, rischieremo, lotteremo, cambieremo e ne moriremo entrambi. 

Esiste qualcosa, nel profondo di me, a cui la storia di Ellen Fansworth ha dato un calcio, uno strattone. Non la conosco, non la conoscerò mai. Le ho sparato. Lì per lì non aveva importanza. Mano a mano che il tempo trascorre diventa sempre più difficile convincersi che non c'era scelta. 
C'è sempre scelta. 
Il determinismo che sbandiero da anni, che appunto in petto come una medaglia, non mi procura più sollievo. Non mi consola, non mi redime. Spero che Roona riesca a darmi una mano. Prega bene per l'anima dei morti. Anche per l'anima dei vivi. Non so se gli sto chiedendo aiuto per i vivi o per i morti.