giovedì, agosto 30

Wind in the wires (3)


Rockfort, Hera, tre giorni dall'arrivo. 
La luce sul corpo della donna, quella distesa prona sul tavolo, è instabile, traballante. La donna che sorregge la lanterna trema, premendo una mano sulle labbra. Un rivolo di sangue ha dipinto l'orlo al pianale in metallo, decorato la gamba, ricamato il pavimento. Una pozza di sangue imbratta il lenzuolo sotto lo stomaco, i vestiti opachi in cui il rosso, per contrasto, scalpita drammaticamente. È notte, fuori, quando Ritter carica l'ingresso dell'infermeria, scortato da una sentinella equipaggiata di fucile; e d'una vistosa freddezza vendicativa, sotto il cappello. 
La donna con la lanterna sussulta, due infermieri improvvisati lo fissano, le orbite disertate dall'emozione, l'abitudine ha messo in fuga qualsiasi forma di tensione o stupore. 
La bambina, in un angolo, è stata sistemata sulla 'scrivania' di Bowie, e Bowie le sta fermando una angosciante emorragia alla gamba sinistra. La bambina piange, divorandosi la bocca, le gengive, annaspando nelle lacrime, intrigata nei capelli intrigati, invocando la madre. Prima di qualsiasi parola o spiegazione, Ritter arrotola uno straccio pulito, riceve dalle mani di Max, che non lo sta guardando, una bottiglia di cloroformio, senza guardarlo. La pezza è sotto il viso della paziente, le dita corrono risolute a lacerare i vestiti, a sbucciare un frutto troppo maturo, fradicio. Porge a Bowie il cutter, ne incrocia le pupille. Passa la lingua tra le labbra serrate, ingoia, presenta il conto delle proprie pulsazioni regolari, sicure. Max annuisce, non una parola, recide un bendaggio alla bambina allunga il palmo, scattante, verso un ripiano e trascina dietro di sé una scatola di antibiotici generici. Dalla porta entrano altri tre uomini feriti, nessuno dei tre in modo troppo grave, tutti e tre abbastanza da incomodare gli esperti. Per un tacito ordine, non proferito, Bowie li prende tutti quanti in consegna, loro e i loro proiettili. Eleazar lascia scorrere le dita sul corpo della donna, lo libera del sangue in eccesso, calcola danni, ordina percentuali; indice e e medio alla carotide, l'orecchio tra le scapole, un foro caldo a pochi centimetri. L'assenza di energia elettrica complica le operazioni ad entrambi i medici, ma nessuno di loro pare davvero in difficoltà, nonostante tutto, nonostante la penuria e i mezzi obsoleti. Le garze sono tagliate al centimetro, l'anestetico tenuto al ribasso, ove si può si condivide il materiale o si utilizzano oggetti impropri (coltelli da caccia, pinze da griglia, tra i tanti).
« Serve l'ossigeno » Eleazar solleva la bombola, scandendo l'ultima sillaba. 
Max solleva la schiena curva, il volto tranciato da una linea trasversale, cremisi. 
« Ritter... » 
« L'ossigeno » 
Di fronte a Bowie sta quell'individuo del Core, dai lineamenti ripidi, dallo spirito scivoloso, il viso impenetrabile, la flemma palpabile capace di bruciarsi in inauditi scatti di prontezza. Dietro di lui, su di lui, la responsabilità di qualsiasi spreco, di qualsiasi errore nella distribuzione delle loro scarse ma dignitose risorse mediche. Davanti a lui un collega, chiamato unicamente per le proprie doti di chimico, per l'abilità in farmacologia, nonostante la risaputa fama da 'macellaio'. Dietro di lui una donna, falciata alle spalle da una striscia di mitra, cinque pallottole, un polmone perforato, un rene danneggiato, metallo pericoloso in zona spinale; una donna che lui, Max, non potrebbe salvare. 
« … D'accordo » Asserisce, un sorriso stabile a siglare il patto. 
Ritter lo sa: Bowie è, o meglio era, un virtuoso anestesista. Anche Bowie lo sa; e sa che Ritter vanta una specializzazione in chirurgia d'emergenza. Non c'è bisogno di altro. 
I minuti che seguono sono all'insegna dell'atto immediato. Accade qualcosa che ricorda uno sport, una coreografia, nella sicurezza con cui i due si passano strumenti, trovandosi sempre nel posto giusto al momento giusto, per ricevere una pinza, una fascia, un flacone di disinfettante, senza sperperare nemmeno un'oncia di tempo. Un'oncia di fiato. Accade qualcosa che ricorda una coreografia, sì, qualcosa di affascinante e perfetto, quasi che l'atto si tramutasse in linguaggio, in codice, un codice appreso in tempi diversi e simili condizioni. Qualcuno, contagiato dalla sincronia, trasporta nella stanza acqua bollente in una spola regolare. Le operazioni sono scandite dal rumore costante di metallo contro metallo: i bossoli vengono gettati in un secchio comune, una volta cavati dalla carne. Bowie gestisce quattro pazienti, estrae sei pallottole, tre delle quali senza l'ausilio di antidolorifici. Quando si volta, al centro d'un punto, Ritter ha un ago infilato nel polso sinistro, fermato con del nastro adesivo blu, un ago che confluisce in un tubo sottile, anch'esso rammendato con dello scotch industriale; il tubo sottile si immette in una flebo, e scende vertiginosamente ad allacciarsi alle vene della donna riversa sul tavolo. Eleazar sta suturando, la fronte imperlata di sudore ed i denti stretti. Quando non c'è tempo per sincerarsi del gruppo sanguigno, nascere zero negativo è un grande dono. Permette di improvvisare mirabili performance visive. Max scuote la testa, tenta un ghigno, prima di concedersi il primo respiro intero dall'inizio delle danze. 

« È per questo » 
Ritter si è sciacquato sommariamente ed ha indossato la camicia bianca, incrostata di sangue. Al momento, provato, siede a terra, fuori dalla 'casa' del collega, la testa adagiata contro il gelo schietto della lamiera. I capelli incollati di rosso, davanti al viso gualcito ad ogni sorso di fumo. La voce Bowie gli scivola nelle orecchie, assieme a scie di sudore secco. Max è uscito dalla porta, coperto d'un maglione infeltrito. 
« … è per questo che non teniamo niente di... valore » Butta un occhio all'interno, nel chiarore placido d'una candela « dispositivi di comunicazioni... o mezzi di trasporto vagamente più... performanti » sbuffa « non che sia facile procurarsene, da queste parti, ma ogni tanto capita l'occasione... e dobbiamo rinunciarci » 
Eleazar si raddrizza lungo il muro, ingoiando un nodo di spossatezza. 
« te l'ho detto, Rockfort è l'unica... » scuote la testa, cestina una parola « l'unico posto, che io sappia, con una certa organizzazione... dopo la guerra... organizzazione... » Bowie allarga le braccia, prima di avanzare sul limitare della veranda rimediata, perdendo l'attenzione nel buio punteggiato di falò, nelle lontananze incappucciate dalla nebbia fresca. Le respira « ogni volta che arriva un cargo da queste parti, le bande di sciacalli, là fuori, si allertano. E... succede quello che è successo stanotte. Provano a forzare il confine delle pattuglie di Mack... Maverick » chiarisce, nonostante abbia già raccontato al collega sommariamente del soggetto in questione « sparano alla cieca, terrorizzano la gente » 
« il cargo con cui sono atterrato due giorni fa » 
« Già. Razioni alimentari sintetiche, qualche strumento medico di poco conto. Munizioni » sospira, quasi un peso gli premesse sul petto, sino a sgonfiarlo. Silenzio « prova ad immaginare cosa accadrebbe se rimediassimo una nave... o... roba del genere » 
Ritter abbassa il capo, annuendo. 
« Sei nato qui? » pausa « Hera, dico » 
« Esatto. Mio padre faceva l'ingegnere meccanico... lavorava nei cantieri aerospaziali di Harrington... e... beh » Max si stringe nelle spalle larghe, continuando a colmare di sé le distanze di fronte « sai dov'è... » un sorriso caduco, uno scatto della testa « sai dov'era Harringotn, giusto? » 
« Sì » 
Segue un mutismo rilassato, quieto, nel quale l'uno e l'altro si dedicano semplicemente a fumare e fissare il vuoto, avanzando tra i fantasmi. Quando ricominciano a parlare, oramai, hanno attaccato una seconda sigaretta a testa. 
« Come è successo ? » 
« Mh? » 
« Durante la guerra. Come ci sei finito a... in valle. Dopo lo scioglimento dei Ribbons... capisci... Si salvi chi può » Una risata smorzata, traversata dal rumore sordo dei denti stretti, interrompe il fluire regolare delle sillabe. Pausa « E chi poteva è tornato a casa » 
« Tu sei tornato a casa » 
« Ehggià » 
Bowie si volta, scrolla la testa a sfumare un ghigno rassegnato; s'appoggia alla transenna, incrocia le braccia. L'ironia cinica, brutale, nello scambio di battute non pare infastidirlo, non pare urtare nessuno dei due. 
Eleazar serra le labbra attorno al filtro, le dita imbrattano la carta di una patina rossa e ferrosa. Sfiata, rapido, strofina il naso col dorso della destra. Poi la fronte. 
« Blackrock. Ci mandarono lì, era una linea nevralgica. E mancavano gli ospedali... » Pausa « cosa che poi ha cominciato a scarseggiare dappertutto. I bombardamenti sono uno strumento di livellamento sociale » La tranquillità statica con cui parla, si accompagna a saltuari ed impercettibili cedimenti del capo, scatti dei nervi facciali, pestati dalla fatica. Max se ne accorge: per quanto non nutra alcuna difficoltà nel raccontarsi, Eleazar non è certo un narratore di gesta e se narra, narra forse perché la fatica di un diniego sarebbe maggiore di quella d'una storia concessa « la maggioranza venne stanziata nelle infermerie delle retrovie. Io fui tra quelli assegnati alle divisioni sul campo. Il battaglione ventitré » pausa « dopo la campagna del 'sette Blackrock era in ginocchio, il fronte settentrionale chiuso, restava  aperto ed irraggiungibile quello meridionale; poi la guerriglia; ed i rastrellamenti » prende fiato, accavalla le gambe, ciondolando le punte degli anfibi « su Columba, invece, combattevano ancora ad armi pari... Almeno, così si favoleggiava dalle nostre parti. I Ribbons rimasti furono ri-organizzati, spediti altrove, qualcuno coinvolto nelle retate, qualcun altro lasciato a gestire l'emergenza sanitaria. Al ventitreesimo, o quanto ne restava, mancava un dottore; li seguii » pausa « Quindi... Spartaca, quindi Boros... Quindi Hera » 
« Allora... durante lo scioglimento... » 
« Boros, sì »
« Dunque? Come mai non tornasti indietro? »
Questo è un quesito a cui Ritter non sa rispondere. Sta provando a rispondere, e la risposta, se c'è, è lì. A Rockfort, in una fredda estate del 2514.
Bowie non insiste. In fin dei conti ama conversare, è una persona tendenzialmente curiosa, ma particolarmente accorta con l'animo altrui. Stare a consumarsi le unghie su una parete di ghiaccio non è nei suoi prossimi progetti. Tanto più che i silenzi di Ritter sono silenzi portati con indifferente leggerezza.
« … Blackrock... una bella strada, da Corona » 
« Più o meno »
« Ricordo che Vincent fu... sorpreso dalla tua partenza » Eleazar sventola la cicca ad altezza bocca, prima di cercare l'ennesimo tiro intensivo « un po' tutti, a dire il vero » 
Max lo nota schiudere le labbra in una smorfia sardonica e acuminata, flettere le ginocchia, poggiarvi i gomiti « l'ambiente scientifico è vagamente refrattario all'idea che qualcuno possa rinunciare ad una straordinaria carriera per... per? »
Eleazar non lancia segnali indecifrabili; è chiaro quanto abbia poco da dire. O abbia molto da dire, ma poco da voler dire. O poter dire. 
« Per » ripete, a voce bassa, facendo eco a Bowie. Spegne il filtro sul pavimento, lo getta di lato « … ci stiamo lavorando » conclude, beffardo, chiudendo al contempo gli occhi ed il discorso. Probabile intenda: 'per una vita diversa, e ci stiamo lavorando'. Oppure: stiamo lavorando per capire, trovare una ragione; proprio qua, a Rockfort, miglia stellari lontano da casa, qualunque essa sia. 
Max asserisce, si adegua, e accenna all'interno. 
« Ho preparato del... » riflette, china il capo da un lato « … caffè. E dovresti mangiare qualcosa, dopo la trasfusione. E magari anche per mascherare il gusto del caffè, sì. » 
« Mh » 
« Ah, giusto. Mia moglie ti procurerà dei vestiti pesanti » Max afferra con due dita il maglione, tanto per chiarificare meglio il proprio punto di vista « prima che finiamo a seppellisca fuori città in eleganti maniche di camicia» 
« Ottimo, sempre tu non mi seppellisca prima per il caffè » Stavolta, sollevandosi in piedi, Eleazar si fa scappare dalla gola riarsa frammenti flebili d'una risata atona, distante, ma tutto sommato salda. 
Immaginano l'inevitabile: tra un'ora, o poco più, avranno nuovi 'sviluppi'. In un contesto di normalità li si chiamerebbe, propriamente, emergenze. Ma l'emergenza perde la propria peculiarità, la propria eccezionalità, quando ogni minuto se ne presenta una.  Sono i ritmi della battaglia, il lessico della battaglia.