mercoledì, maggio 29

I name this ship the Tragedy, bless her and all who sail with her







Ha vissuto molte insonnie per i viali di Capital City. 
Insonnie diverse. 
Quando era giovane, quando era molto giovane ad esempio, un poco sceglieva deliberatamente di non dormire; gli piaceva la notte, quel silenzio che sapeva di pioggia, così stranamente muto, sincero, perché tacevano tutte le macchine, tacevano i passi, il caos della città. E la città sembrava tanto simile ad una foresta pietrificata, stupita di svegliarsi sul mare. C'è qualcosa di ingenuo nel metallo dei grattacieli all'alba, qualcosa di mistico, di espanso. 
Quando era giovane, molto giovane, ad esempio. Quando William era vivo. Quando traversavano i quartieri a piedi, per ore, tornando a casa in un buio elettrico; spingendosi a turno giù dai marciapiedi, nelle pozze d'acqua riempite di cielo. Una bottiglia di whisky passava di mano in mano. Le risate tirate via, le risate trattenute, con la forza sciocca di essere il padrone del mondo, di avere tutto davanti. Migliaia di parole, migliaia di discorsi: ipotesi lunghe chilometri. Uscire dal laboratorio di Larousse alle tre, dopo ore ed ore di esperimenti, dentro una pelle d'oca fenomenale; sbattere la porta frustrato, volarla esaltato, esitare sull'uscio in preda ad un tuffo di vuoto, un tuffo di verità acerba. 
E capital City lo aveva visto crescere. Le albe sul tetto di casa, sotto le parabole condominiali, con Keynard; appoggiati alla balaustra, gomiti arrossati, sorrisi idioti, un paio di facce lisce su cui la luce s'apre a ventaglio. Le camicie agitate in aria dal respiro dell'oceano, che pareva di stare sulla prua d'una barca, sulla prua del multiverso. 

Capital City, allora, lo aveva visto felice. Forse. Allora non sapeva che quella era la felicità; ma era la felicità. È una prerogativa della felicità apparire come l'attesa della felicità. 
Dietro di sé, Corona, la sua famiglia tragica senza tragedie. Davanti a sé, la guerra, una guerra di cui non sospettava ancora nulla. Tra Corona e la guerra. L'università, Vincent, le pubblicazioni, le manifestazioni, la certezza di essere predestinati.
William. 

William. Non si può amare una persona e pretendere di giudicarla, Ritter. Nessuno ti aveva insegnato a non giudicare quelli che ami; il risultato è stato non riuscire ad amare nessuno, per il bisogno di giudicare sempre, tutti quanti.
E quando capitò di amare, amasti molto male. Amasti sbagliato.
Non puoi giudicare quelli che ami, se li ami.

Ha vissuto molte insonnie per i viali di Capital City. 
Ricorda volentieri le insonnie adolescenti, del ragazzino, del ricercatore. Le ha appena ricordate, in una carrellata sfumata, soffusa e senza voce.
Le altre, non le ricorda e se le ricorda, preferisce fingere di averle dimenticate. 
Dimesso dalla clinica, tornato dalla guerra. La droga, l'alcol, lo schifo, il lutto insensibile, l'abbandono insensibile, un niente che si contorce su se stesso gemendo gemiti privi di suono.
E tu lo guardi dall'esterno, un po' come in sogno, un po' come fosse la tua vita, da fuori.




Mattina presto.
Eleazar è seduto davanti dal General Hospital, nel chiosco. Un bel sole; Ritter indossa abiti umidi, reduce da una notte di pioggia. Gli ombrelli bianchi del locale sono agghindati coi colori dell'alleanza; fremono fieri nella brezza. Davanti, tiene una tazza di caffè scuro e un piatto di uova sintetiche aromatizzate al bacon.
Non le voleva, le uova, non le mangerà; la ragazza alla cassa ha insistito una volta di troppo, ricordandogli che in occasione dell'Unification Day, con un caffè la gestione offre gentilmente la colazione ed è proprio privo di senso, sa signore, prendere solo il caffè se la colazione è gratis assieme al caffè, vede, è anche scritto lì, sul menù del giorno, abbiamo le migliori uova sintetiche di queste parti!
Mezza città, mezzo Core è in vacanza. Non festeggerò mai questa festa; riflette, accostando alle labbra la plastica termoresistente rosso/blu/stellata della tazza. Non festeggerò mai questa festa. Non si tratta di dispiacere, ovvio. Constatazioni. 
Accende un'Engine. Gli occhi verde ossido si ritraggono tra le ciglia. Potrebbe attivare il touchscreen integrato al centro del tavolo, per consultare le notizie del giorno, tra uno sponsor pubblicitario e l'altro. Tamburella le dita. La fede all'anulare.
No, meglio di no. Preparativi per la parata. Preparativi per i preparativi. Gente, gente ovunque. Traffico in aria, per terra. Un brulicare entusiasta. La guerra è finita da quattro anni. Il bisogno collettivo di sapere che ha avuto un senso, il bagno collettivo nel bisogno di un senso... Lo legge nei visi radiosi delle mamme, nel vociare sconclusionato dei liceali in branco, degli anziani a braccetto, dei soldati in uniforme, nell'inno declinato in centinaia di forme differenti, su centinaia di canali differenti, le suonerie dei pad, le holotrasmissioni, gli impianti audio delle auto ferme al semaforo, lo spazzino che canticchia.
La guerra è finita da quattro anni... il bisogno collettivo di sapere che ha avuto una fine. 
Ingoia. Il vento carezza i capelli e gli angoli della bocca, sollevandoli in un'unico, lento movimento. 
Un brivido marcia lungo la schiena, sotto la camicia di seta sottile, sotto la pelle pallida; il brivido puntiforme, una sfera solida, scende le vertebre a gradini, toc, toc, toc, simile nel meccanismo ad un giocattolo infantile. Suona le ossa come uno xilofono. 
Una fine.
Siede a quel chiosco; se la gente cogliesse l'invisibile, scoprirebbe un gomitolo d'angoscia pulsante assopito sulle sue gambe. La guerra non è finita, perchè festeggiare? Non gli interessa, in verità. Vincitori, vinti. Conservazioni, rivoluzioni. No.
Gli interessa sua moglie; gli interessa la sua bambina (le sue bambine?).
Ingoia, ancora. Mura a secco la tensione. Un fiotto di nervosismo infetta il cervello. Soffoca la sigaretta. Strofina le tempie. Le labbra sbiancano in un crampo labile. Dalla tasca estrae un flacone ambrato di medicine. Apre. Agita. Butta giù due pasticche nel caffé raffreddato. Larousse ha prescritto lo Zyploclorid: un accurato, accorato programma per la disintossicazione da blast. Ritter ci ha guadagnato una nausea perenne, una perenne sonnolenza, una costante irritabilità, mal di testa, sbalzi di temperatura, sbalzi d'umore: una specie di donna incinta sotto mentite spoglie. Con la morfina sarà più complicato; lo sa. Sfrega la faccia; la mossa elegante, stremata.

Dov'era il 29 maggio 2511, mentre la guerra finiva senza di lui? 
A Serenity. La guerra finiva per tutti, non per quelli nella valle.
Ricorda di aver camminato per miglia, nel sole marcio, nella nebbia tumida di terra, di sangue, di terra lorda di sangue. Una valle ricoperta di morti, in modo uniforme. Mai il cielo gli era sembrato tanto distante e incosciente, tanto freddo. Pulito, spietato. La canna del fucile batte sulle scapole sporgenti, la medaglietta batte sullo sterno. Un suono comico, simile alla latta deserta d'un barattolo a perdere. Grigio, viola, un rosa malato, ancora grigio, ancora viola, ancora rosa. Qualcuno fruga tra i cadaveri, qualcuno piange. Colpi in lontananza. Contendersi i polsi dei morti con gli sciacalli: tu cerchi un battito cardiaco, loro un orologio. 

29 Maggio 2515. Accende un'altra sigaretta. Con calma composta. Le bandiere, l'entusiasmo. Il rosso, il blu, il giallo. Siede con il proprio sapere, la propria coscienza. Ineluttabile. La propria fiducia, anche. In frangenti del genere, devi avere fiducia. Si fida di Sterling. È arrabbiato, è furioso, è stanco. La odia. Si fida di lei. Del suo ispirato discorso di nozze. Delle promesse evitate da entrambi, da entrambi  ostinatamente mantenute.
Finisce il caffè. Fissa il mare. 
Conosce quello che succederà, oggi pomeriggio. Il futuro, tra una dozzina di ore. Stragi. Vendette, attentati, carneficine.
Cosa ne pensi, Ritter?
Penso che si raccolga il seminato. La morale non esiste, esiste la storia. È la storia a giudicare e giudica col rigore di una scienza. Non c'è etica nelle reazioni chimiche, non c'è etica nella storia dell'uomo, solo fatti che hanno più o meno ragione di accadere. 
Nonostante ciò, se esiste un inferno tu ci finirai.
Ci finirà Eir. Rooster. Ci finirà Black. Ci finirà Wright. Finirete nei naraka sotterranei al cosmo, sotterranei alla coscienza, sconteranno la pena contando semi di sesamo per milioni di epoche, incapaci alla parola, trafitti dal freddo, su lastre di ferro arroventato, dilaniandosi a vicenda, mentre il karma suona vittorioso la propria musica.
Un'altra smorfia aguzza, beffarda; passa la lingua sui denti. Scuote la testa.
Lo Zyploclorid gli mette appetito.
Meglio mangiare le uova.
Ordina un altro caffè. 


Hai finalmente imparato a non giudicare quelli che ami.