martedì, ottobre 8

This twisted crown



Era Maggio, il Maggio acceso e verde di Corona. Il maggio che spettinava persino i prati sistemati, le aiuole domate, le superfici patinate dei laghi artificiali. 
A maggio, il vento dal mare invadeva le tenute, invadeva le pianure, correva rapido sull'asfalto in una carica impetuosa e sconsiderata. Non c'era cena in cui non spegnesse le candele, pranzo in cui ribaltasse un gazebo, aperitivo in cui sradicasse gli ombrelli, o battuta di caccia su cui sventolasse un temporale mettendo tamburi alle zampe delle volpi, beffando i cercatori. 
Temporale. 
Vento e tempesta. 
Anche a cielo terso, come quel giorno. 
Vento e tempesta. 
Un ragazzino passeggiava sul limitare del campo da polo; c'era freddo, ma quel freddo pulito e amichevole che scalda il cervello e gli occhi. Gli occhi verde chiarissimo, aperti dentro l'obiettivo di una macchina digitale. Non guardava dove stava andando. Guardava da dentro l'apparecchio. Non lo schermo, l'obiettivo. L'obiettivo, il centro dell'immagine. 
Il trench aperto, come un paio d'ali grigie e lucenti, il maglione di cotone rosso, i pantaloni scuri, di tessuto sintetico. Procedeva, misurava l'orizzonte in bilico sul perimetro del prato, al di là della macchina poggiata sul naso appena pronunciato. 
Vento e tempesta. 
Il suo nome, il nome con cui lo chiamava sua madre. 
Sa'ar; come vento, come tempesta. 

«Chi è quel ragazzino?»
«Mh?»
«Quello alto, magro... un po' elegante»
«Ah» Rise «Ritter. Il figlio minore dei Ritter»
Dopo aver riso, Sandy spolverò le ginocchia dalle briciole della torta alle carote (vere carote), via dalle gambe piene, fasciate in una gonna ampia, pesante, come la sua figura adulta e gioviale. Guardò Danae, mingherlina, una scottatura da brezza di traverso sotto le ciglia bionde, due precoci segni di fianco alla bocca, le dita a schermare il piluccare ineducato. Si nutriva simile ad un uccellino, ma con gusto; sembrava serena nel proprio scialle bordeaux. 
«È carino. Assomiglia un po' a sua madre»
Sandy aggrottò la fronte morbida, sotto una colata di liscissimi ciuffi castano castoro. 
«Dici? Tu sei troppo giovane per ricordarti il padre... da giovane» Ridacchiò, bonaria, del proprio involontario intrigo di parole «Lo stesso modo di muoversi, lo stesso cipiglio...» Si fermò, si strinse nelle spalle rotonde «no, in fondo hai ragione tu. Ricorda molto più la madre »
Nessuna delle due pareva intenzionata a proseguire su Rachel. Il silenzio indicò qualcosa di più. Qualcosa di più lasciato indietro. In fin dei conti, il viso di Eleazar era ancora coperto dalla macchina brandita con impavida cura, le nocche colorate di porpora.
«Lo fa spesso?»
«Le fotografie? No, ce l'ha da un paio di giorni e...»
Danae scosse la chioma resa elettrica dall'umidità del prato.
«Intendo camminare così tutto per conto suo»
Sandy incassò nuovamente il collo. Rifletté. 
«Sta sempre per conto suo; ogni tanto col fratello»
«Oh. Come mai?»
«Ha un carattere un po' strano. Chiuso»
«Quanti anni ha?»
«Undici»
Danae terminò la torta in quel momento. Non aveva alcuna briciola addosso. Sbatte le palpebre. Guardò la collega. Guardò il ragazzino, avviato verso il caseggiato. 
«Ah. Non va d'accordo con gli altri?»
Sandy negò, agitò un poco i palmi pallidi, tozzi. Un bracciale di corallo le stringeva il polso strozzando la pelle. Non tintinnava. Troppo polso e troppa pelle. 
«Sì, per carità. È solo parecchio riservato. Nei gruppi tende a fare tutto da sé, quando una cosa non gli interessa, semplicemente si scansa un metro più là e trova qualcos'altro con cui passare il tempo. Diciamo che più che non andare d'accordo... evita di intrattenere grossi rapporti»
«Pensi abbia qualche problema?» Domandò Danae, avvolgendo meglio le spalle appuntite nella sciarpa di stoffa morbida e bella. 
Sandy rise, un mezzo gorgheggio. 
«Oh, tesoro, tu vedi problemi ovunque»
«Magari può essere utile per risolverli»
«Il giovane Ritter è taciturno, niente di più. Un po' di silenzio non ha mai ucciso nessuno» una pausa, forse appena troppo allargata per risultare neutra «è molto intelligente» Si alzò, portando dietro la mole benevola del corpo robusto, sollevando con sé, nemmeno fosse un fardello, il seno ampio sulle braccia incrociate.
«In che senso?» Anche Danae scattò in piedi, in una movenza repentina, agile. 
«Non so bene. So che è molto intelligente; dicono più degli altri bambini»
«Ma è un'impressione o... un dato di fatto?»
«Che vuoi ne sappia io, tesoro? Lo dicono e basta. Perchè sei curiosa?»
Danae restò silenziosa per un po'. Fissava la figura esile e decisa di Ritter, più alto della media, più intelligente della media, portare in processione scientifica la propria nuova macchina fotografica. Sorrise, accentuando i segni appesi ai lati della bocca, nonostante i trent'anni e poco più. 
«Non sono curiosa. È lui... curioso. Strano» 
«Vieni, è quasi ora di merenda. Ti faccio vedere come funziona» Sandy tagliò corto, non senza un certo affetto per l'amica e collega. Il campus pomeridiano era un'occasione preziosa per la gioventù dispersa di Corona. Solo alcuni di loro frequentavano le scuole curricolari; molti avevano precettori privati, a minimi gruppi. Altri, maestri in solitaria. Come Eleazar. Al campus venivano coinvolti in sport di squadra,leggevano i libri del Buddha, passeggiavano nei boschi di betulle simmetriche. «Vedrai, lavorare coi ragazzi sarà una grande soddisfazione, sul serio. Sono così pieni di vita, così pieni di positività. Contagiosa»
Danae annuì, distratta; impiegò un po' a distogliere l'attenzione da Eleazar, distante, per seguire la donna alle tranquille mansioni quotidiane. 

«Ehi, coscia-di-morto, quante merende ti sei mangiata eh, coscia-di-morto? Rispondimi coscia-di-morto. A giudicare dal tuo culo moriremo tutti di fame parecchio presto da 'ste parti»
Christian Morris era bello ed aveva un sorriso bianco, spalmato sulla faccia da vincente. A quindici anni, lui vinceva la vita, vinceva le ragazze, vinceva le gare sportive. Quasi tutte quante. Aveva i denti tanto dritti da sembrare finti, i capelli tanto spettinati ad arte da sembrare scolpiti nella paglia e nella seta. Vinceva nelle risate degli amici e soprattutto delle amiche. Poteva dire e fare tutto quello che voleva, doveva farlo. Era il figlio di Douglas Morris, della Morris Motors. Migliaia di cilindri e di miglia orarie, da spruzzare in faccia alla gente. Come adesso. Con quel sorriso da atleta spalmato.
«Allora coscia-di-morto, hai la gola troppo piena di grasso per rispondermi?» Qualcuno dei compagni fischiò a esaltare il sarcasmo finissimo, le compagne sghignazzarono all'unisono, tutte sulla medesima frequenza, tutte col medesimo ritmo.
Lily Wardwell coscia-di-morto teneva la testa bassa; voleva raccogliersi in un solo punto e sparire, le mani al petto, la schiena reclina. Il punto era all'altezza dello stomaco. Odiava il suo stomaco; lo odiava peggio di quanto odiasse Chris Morris. Lily era minuta e priva di forme, un blocco unico, senza curve, incerto, che non si sapeva indossare per niente. Sembrava misera nella sua giacca rossa, che era tanto bella quando l'aveva scelta con sua madre, e ora era tanto misera che non l'avrebbe scelta mai. I ragazzi erano cacciatori, le ragazze levrieri. Christian, un cavaliere. Lei, il maiale. Non reagiva, li guardava ogni tanto, mentre sfilava a rallentatore sotto i loro sguardi di diamante. Avere sedici anni non era mai stato così brutto e così lungo.
«Cosciadimortooooo, dove vaaaaai? Non me lo dai un baciooooo» Albert Bentley, la richiamava con una cadenza crudelmente melodiosa. I Bentley, della Bentley Arms. 
«Attento Benty che se la baci magari ti mangia» Myrcella Von Brachel, il miele profuso attorno al faccino di bambola, due incantevoli labbra a cuore, snella come una falce di luna. Von Brachel, come Von Brachel, noto regista concettuale molto amato negli ambienti artistici dell'upper-class. Myrcella pareva l'unica femmina autorizzata a esprimere commenti autosufficienti, commenti capaci di produrre reazioni ilari, seppure moderate, tra i maschi della compagnia.
«Attirala con la merenda, vedrai come corre, su quel culo»
«Ma non ti pesa, eh?»
Lily sospirò, contrasse la bocca. Il mento tremava. Il celeste spazioso, generoso, delle ombre sulle piume dei gabbiani la mattina. Triste, arrabbiata. Con se stessa, con la torta che stringeva tra le dita corte, indurite dal violino. I capelli ramati si infiammarono nel sole, il sole la accese, mentre cammina via, nelle scarpe sportive. 
Le loro voci erano un coro infinito ed indistinto. Simile all'inferno indistinto ed infinito d'un paradiso pieno di cervi argentati ed un solo cinghiale. Coscia di morto. I Wardwell erano impresari di pompe funebri, arricchitisi con le pompe funebri, famosi per le pompe funebri. Coscia di morto, quindi. Cosce grasse, casse da morto. Tutto il resto. 
Da anni. 

Vento e tempesta. 
Schiocchi di ossigeno dietro le colline, quasi si preparasse a sorgere qualcosa di enorme; quasi fosse in procinto una rivelazione. Eleazar scattava, regolava il diaframma trattenendo il respiro, la velocità di scatto. Non controllava mai i risultati, o quasi mai. Sentiva che non c'era bisogno. 
Sentiva di capire la luce. 
Circondò il caseggiato. 
Stava gran parte del tempo per conto suo, è vero. Le rare volte in cui lo avevano provocato, aveva sfoderato uno sguardo verticale degno del permafrost. Non provava niente contro le persone, ma non le sentiva così bene come sentiva la luce ad esempio. O la matematica. Il pianoforte. 
Procedeva, leggero, allungato, calciando un ciottolo e riavvolgendo con le pupille il filo liquido di una lumaca nascosta. Il viso affilato, dondolava in un'espressione un poco crucciata, intenta e distratta al contempo. 
Vento e tempesta. 
Scavalcato l'angolo, Lily sedeva sul gradino, a sei, sette metri da lui. Fuori luogo forse. Sempre.
Lily gli esplose nell'occhio. La giacca rossa tenuta a coprire le gambe raccolte, il rame dei capelli, la pelle imporporata nel freddo; sopra due teli artici d'erba e di cielo. Valutò la cosa. Non fu certo gli piacesse. Le dita si contorsero sulla macchina, dubbiose. Si avvicinò. Uno, due passi. Non era certo gli piacesse. Non era armoniosa, pelle-rame-rosso su erba-cielo. Mancava di coesione. Batteva una nota troppo lontana dal do centrale, in una melodia eseguita poco al di sotto del do centrale. Non era certo gli piacesse. No. 
Lily divenne una sfera, simile ai ricci disperati contro le gomme dentate delle jeep. Piangeva. Eleazar non cambiò espressione quando capì che piangeva. Nemmeno un po'. Inclinò il capo a sinistra. D'improvviso pensò, seppe che non era un paesaggio. Che il pianto l'aveva sottratta al paesaggio, l'aveva resa altro. I colori non contarono più, contava l'altro-dai-colori, ora. 
Si avvicinò di nuovo. Una forma di cautela priva di esitazione ne tratteneva i gesti d'una grazia angolosa, sicura di sé. 
Lily alzò il viso intinto nelle lacrime mentre Eleazar alzava l'obiettivo. 
I gabbiani negli occhi di Lily, dispiegarono le ombre celesti in un'unica vampa. Ritter spuntò oltre l'obiettivo, le pupille dilatate in quei gabbiani al decollo. Restò fermo, interdetto. L'altro-dai-colori, l'altro-dal paesaggio s'agitava tutto in fondo a quegli occhi umidi, perplessi e feriti. Feriti. Eleazar abbassò la macchina; nessuna smorfia ad animargli i nervi sotto la faccia, solo una muta e meditativa contemplazione. 
Brezza e sereno. Brezza e sereno 
«Che c'è? Che vuoi?»
Lily, un po' sorpresa, un po' timorosa, affondo le unghie sulla stoffa della giacca. Fissava quel ragazzino di undici anni, stranita e piena d'un dolore non differibile. Definibile, non differibile. 
Eleazar sbattè le palpebre. 
«Farti una fotografia»
Lily passò dalla sorpresa alla meraviglia. Si strofinò le gote col dorso della mano. 
«Perchè?»
«Perchè ti trovo interessante»
«Cosa significa interessante?»
Eleazar mosse le dita sui bordi della digitale, battendo su tasti immaginari per comporre una risposta, convinta a precisa. Si strinse appena nelle spalle, distrattamente. 
«Fotografavo le colline. Ti ho vista qua e sono diventate noiose»
Il celeste negli occhi di Lily tracimò, invase le orbite, occupò ogni centimetro disponibile. Continuava a coprire le gambe, a nasconderle nel sudario della propria giacca-non-più-graziosa. Le sue cosce. A costo di crepare di freddo. Inghiottì. Boccheggiò appena.
Ritter pensò che diventava sempre più interessante. Conosceva di nome e di fama Lily Wardwell. L'aveva riconosciuta, senza che ciò smuovesse d'un millimetro la sua attenzione sfacciata. Era interessante, tutto il resto irrilevante. 
«Allora?» La incalzò, interrogativo, quasi professionale. Freddo, e assurdo. 
«Sì... sì, va bene» Lily annuì rapida, impacciata, toccandosi i capelli, mettendoli dietro le orecchie, tornando a liberarli sopra le tempie. Le spalle le tremavano un po' per il vento e la tempesta di Maggio «credi che dovrei sorridere?» Domandò, dubbiosa, poco naturale. 
«Credo che dovresti metterti la giacca prima di morire assiderata»
Lily rise, sorrise. 
Era un bel sorriso. Eleazar aveva un modo suo di pensarlo, non pensava il bello; pensava che rendesse la fotografia più rosa, e più parlante. Rosa e parlante. Nonostante il naso tozzo, il profilo a grana grossa. Era rosa, parlante, interessante. I suoi occhi erano meglio di un panorama. 
Cose che meritano di essere nelle fotografie. 
Meritano di essere fotografate. 
Eleazar scattò in quel momento. Catturò la preda. 
Sorrise, anche lui. 
«Vuoi vederla?» Propose. 
Lily continuava a sorridere. 
«Non importa»
«Giusto» Sentivano di capire la luce. 
«Sei uno strano tipo» La ragazza assunse un'espressione dolce, ripristinando con la propria sicurezza di sé, il senso delle età diverse. 
Ritter fece spallucce, tranquillo. La questione non lo toccava. 
Poco sembrava toccarlo. 
«Può darsi»
«...»
«...»
«Grazie»

Si salutarono con un semplice gesto della mano. 
Vento e tempesta. 
Vento e tempesta. 

Lily Wardwell morì a sedici anni, quattro giorni dopo quella domenica pomeriggio, ingoiando una scatola intera dei sonniferi della madre. L'avevano trovata in bagno, addosso una maglietta grande, il trucco della sera precedente appiccicato dal sale alla faccia rosa. C'era un biglietto, scritto con la matita per le labbra, di getto. Chiedeva scusa ai genitori, diceva 'non è colpa vostra, è colpa mia. Vi voglio bene, mi dispiace'. 
Nessuno ne parlava, tutti lo sapevano. Quando la notizia si diffuse, l'aria profumata tra le mura di molte tenute, di tutte le tenute di Corona si irrigidì improvvisamente. Qualcuno si guardò, qualcuno commentò nel segreto delle frequenze cortex, si informò morbosamente e nascostamente. Erano stati addestrati a questo. Addestrati ad anni ed anni di agi e compromessi sociali. Addestrati e pronti. Ammortizzare, compiangere, ritoccare e insabbiare. Celebrare. Insabbiare. 
Insabbiare. 
Potevi vendere il disagio che provavi davanti all'idillio violato come una specie di dolore contrito per la giovane perdita. Potevi venderlo così, giusto e appropriato. Dire che era insensata, la perdita, terribile. Insensata, soprattutto. Dolore contrito ed insabbiare. 
Eleazar si trovava a casa, quando apprese la notizia, da due domestiche che stavano commentando in cucina. Di venerdì. Rimase immobile a fissare la data di scadenza di una bottiglia di latte. Se la sarebbe ricordata per anni, per sempre, quella data. Lo sfondo grigio dell'etichetta. L'inchiostro blu. La sensazione umida e fredda tra le dita calde di pianoforte. Ingoiò. Dilatò lo sguardo verde fino ad affogarlo nel bagliore asettico del frigorifero spalancato. I suoi polmoni, senza che lui volesse, smisero di respirare. 
Il suo stomaco, senza che lui volesse, si contorse nella nausea. 
Il suo cuore, senza che lui volesse, si contorse nella bile. 
Il suo cervello, senza che lui volesse, ricostruì il pelle-rame-rosso su erba-cielo. Ricostruì il rosa parlante, ricostruì l'altro-dai-colori. Il sorriso. 
La morte. E la morte. 
Il rame, il rosso, la pelle, il rosa, il sorriso. E la morte. 
Il rame, il rosso, la pelle, il rosa, il sorriso diventarono qualcosa di più impegnativo. Diventarono una persona, diventarono lei, diventarono Lily Wardwell, suicida a sedici anni nel bagno di casa propria. 
Sentiva un granchio enorme e nero accartocciargli lo sterno, il petto. Rimase tanto immobile che le domestiche non lo notarono neanche. L'espressione fissa, senza curve emotiva. Le mani tremavano forte. Vento e tempesta. 
Vento e tempesta. 
Posò il latte, le dita congelate. Chiuse il frigorifero. Andò in camera, attraversando il silenzio composto della villa, stanza dopo stanza, senza incontrare nessuno. Con cui scambiare uno sguardo o una parola. 
Si mise sul letto. Accese il tech-reader. 
Le sue articolazioni, senza che lui volesse, si procurarono la fotografia. 
Senza che lui volesse, i suoi occhi la stavano guardando. 
Il granchio enorme e nero crebbe a dismisura stritolando l'intero spazio del suoi pensieri, del possibile, del concepibile. Stritolando e sgretolando ogni cosa. 
Ore dopo, le sue gambe intirizzite, senza che lui volesse, lo portarono a cena. 
Il suo corpo, senza che lui volesse, lo accomodò sulla sedia. 
Le sue orecchie, senza che lui volesse, ascoltarono conversazioni inutili. Conversazioni non pertinenti. 
Sua madre torturava un gamberetto nel piatto. Suo padre mangiava. Elia giocava con Elena, fabbricandogli animaletti di pane. Elena rideva. 
Eleazar, senza volerlo, li guardò, a testa bassa. 
Non succedeva niente. 
Possibile?
Si aspettava un cambiamento dei colori, un cambiamento nei volti. Si aspettava di avvertire il male nell'aria, di veder crollare le pareti, le maschere, si aspettava che i bicchieri nelle vetrine esplodessero, il tetto si spaccasse. Si aspettava qualcosa. Qualunque cosa, ma qualcosa. Qualcosa. Qualcosa. 
Si alzò. E si alzò volendolo con tutto se stesso. 
Sbattè la sedia in avanti, uscì dalla sala da pranzo volendolo con tutto se stesso. Vento e tempesta. Il corridoio, l'atrio. Spalancò la porta, scese le scale. Si fermò.
Era Maggio, la sera di cobalto, il vento dal mare che respirava in lontananza seminava caos tra le foglie, scompigliava la perfezione dei giardini, violava le aiole fiorite. 
Seminava il furore. 
Tempesta. 
Strinse i pugni, e strinse i denti attorno a quell'immagine, fissa nella sua mente. A quella fotografia. A Lily Wardwell, una domenica qualsiasi, in quel posto qualsiasi. Strinse più forte. 
E capì la bellezza. Capì la bellezza e la rabbia.
E le capì assieme. 
Come capiva la luce. 
Vento e tempesta. 



Sandy chiamò a raccolta i ragazzi del gruppo del campus. Era sabato. 
Indossava un'altra gonna, scura, ma sempre ampia, sempre di stoffa pesante. I capelli castani le contornavano il viso largo e concentrato. Affluirono alla spicciolata, sotto lo sguardo della responsabile; uno sguardo rincresciuto, umano in modo mirabile. 
Danae, a braccia incrociate, osservava la scena seduta accanto alla collega. 
I ragazzi presero posto, a gruppi, riempiendo via via le sedie libere. Avevano un'aria normale, usuale, annoiata che stonava con l'espressione particolarmente severa e contrita di Sandy. 
Eleazar stava quasi in ultima fila. Era molto alto per la sua età. Il maglione di cotone azzurro piegato sui gomiti esili, il viso distante, distratto, sgualcito da una stanchezza strana. 
Adulta. 
La macchina fotografica appoggiata accanto, assieme alla borsa con il tech-reader, il pad e le cuffie. «Non vi tratterrò molto» Iniziò Sandy, cercando di richiamare la loro attenzione ondivaga, divisa fra i display e gli auricolari «Non vi tratterrò molto, ma volevo spendere due parole su quello che è disgraziatamente accaduto alla vostra amica Lily» Calò controvoglia il silenzio. Qualcuno continuò a bisbigliare disinteressato. Eleazar avvertì il filo di nervi dentro la colonna vertebrale vibrare come la corda di un arco. Stridere. 
Quello che è accaduto. Disgraziatamente. Amica. 
Accaduto disgraziatamente. Amicizia. 
Disgrazia? 
Inghiottì. Vento e tempesta. Le spalle tremarono. 
«Lily mancherà molto a tutti noi. Era una bellissima persona. Questa terribile sciagura senza ragione ci addolora e ci sconvolge»
La sentiva, la rabbia. Fremere sulla punta delle dita. Gocciolare tra le sillabe della parola 'bellissima', della parola 'sciagura', a separare le parole 'senza' e 'ragione'. Il viso pallido, occupato dal verde ingombrante, scomodo, di quegli occhi verdi senza cedimenti, senza macchie né paure, beveva la luce disteso da un sentimento di sorpresa aggressiva. Un sentimento nuovo. Non era mai stato così. 
«... ci addolora e ci sconvolge. La cosa più importante che possiamo fare è non dimenticarla, ricordarla nei bei momenti passati con lei, per le cose belle, invece che per la sua fine insensata »
Eleazar strinse i pugni. Vento e tempesta. La mascella affilata tremava in un moto impercettibile. 
La cosa più importante. 
La cosa. Più importante. È ricordarla. 
Ricordarla ricordarla nei momenti in cui piangeva, circondata da eserciti di puttane e figli di puttana. Cozzare la testa sul profilo della sua morte, snudare gli angoli della realtà, perchè Lily aveva sedici anni, solo sedici anni in un sorriso enorme, un paio d'occhi che toglievano senso alle colline. Smettere smettere smettere di dire 'insensata', e cominciare a chiedersi il motivo, affrontare il motivo, la verità di un mondo di merda laminata d'oro. Cercare un responsabile. I responsabili, gli assassini, gli stronzi. Affrontare gli stronzi, indicarli, riconoscerli; un fottuto nome, un fottuto cognome a tutti quanti. 
Smettere di dire insensata. 
Smettere di proteggersi. 
Smettere di vivere in una bolla di cristallo ipocrita, odiosa. Schifosa. 
Le pupille grandi annegavano nel vuoto. Era calmo e furente. 
La nausea. Vento e Tempesta. 
Il cuore, avvolto nello sterno, sbatteva contro le ossa come un uccellino impazzito. 
Un uccellino affamato, spaventato, riempito dalla musica della migrazione, costretto tra le sbarre infrangibili della fisica. 
Il discorso terminò. 
Eleazar si alzò scivolando sul grumo che gli scavava la gola, sino allo stomaco. Storse la bocca. Si guardò attorno, in un getto di disgusto inesausto. La pelle delle sue mani delicate, lievi come ali di allodola, aveva una consistenza diversa, nuova mentre la sfregava con le punte delle dita. 
Fu in quel momento che lo sentì. Accadde che sentisse. 
La chiamata del risveglio. 
Stavano camminando dietro di lui. Il gruppo di Morris. 
Commentavano l'accaduto. 
Non servì niente di chiaro, niente di preciso. Bastò che il giovane Chris, sotto la proprio aureola bionda, concludesse in gloria una frase di Bentley. 
« … ed il colmo è pure che quella palla di lardo è morta perchè s'è mangiata troppi sonniferi. Mangiata. Cazzo... »

Ci sono momenti in cui capisci. 
Eleazar lo capì lì. Aveva capito la luce, aveva capito la morte, aveva capito la bellezza. La rabbia. Nella vita non gli sarebbe servito di capire nient'altro, quello che esisteva da comprendere lo comprese nel maggio dei suoi undici anni. Nel corso dell'esistenza, avrebbe finito soltanto per sviscerarlo più a fondo, per definirlo, perderlo e ritrovarlo. La luce, la morte, la bellezza, la rabbia. Il vento. La tempesta. 
Si voltò. 
La mossa fu placida, ma spietatamente definitiva. Inclinò il capo da un lato sotto il peso d'un sorriso in ascesa lenta. Un sorriso nuovo. Ripido. Gli affilò il verde degli occhi mentre lo snudava in faccia a Morris, dopo due passi leggeri. Lo snudava assieme alla curva delle labbra, una coppia raffinata, cinica di lame giovanissime. Christian non ebbe la prontezza di chiarire che si trattava del piccolo Ritter. E benchè il 'piccolo' Ritter fosse alto quasi quanto lui e lo affrontasse muso a muso, non ebbe occasione nemmeno di notare quel sorriso scosceso e spigoloso. 
Il pugno arrivò senza preavviso. Senza troppa lealtà, correttezza sportiva. 
Eleazar lo colpì in faccia con una forza imprevedibile per suo corpo sottile. Poi gli saltò addosso. E continuò a colpirlo, colpirlo, colpirlo alla cieca, ma con straordinaria precisione crudele. Voleva fargli del male, più male possibile. Mirava a rompere, a spezzare. Rotolarono a terra, in mezzo alle grida stridule della Von Brachel. L'energia nelle braccia, nelle spalle di Ritter era proporzionale a quella che, da sempre, addormentava in sé stesso. Nonostante il fisico sportivo, Christian Morris finì con la faccia sfasciata, sotto le nocche, le unghie di Eleazar.
Eleazar non cambiò mai espressione, schizzato di sangue, lanciato su un fiatone liberatorio. Eseguì il proprio rito dal principio alla conclusione. 
Li separò Danae, dimostrando un vigore imprevedibile date le proporzioni minute. Sandy chiamò i paramedici per Chris, in mezzo ad un cerchio di volti di cera esterrefatta. 
La società di Corona avrebbe sicuramente provveduto ad insabbiare anche questo. 
A tutelarsi da se stessa. 
Qualcuno avrebbe mormorato del sangue Cavendish. Qualcun altro avrebbe iniziato a ricordare, miracolosamente, quanto strano fosse sempre stato quel bambino. Da principio. In origine. Non un problema di crescita, non un problema di ambiente. 

Non un loro problema. 


Herzog Ritter amava guidare le proprie automobili. O almeno, lo si poteva ipotizzare dalla scarsa frequenza con cui ricorreva all'autista. Fuori, era calata la sera. Accanto a lui, seduto, Eleazar osservava l'avvicendarsi dei lampioni sul bordo della strada perfetta e deserta. Aveva il maglione chiazzato di scuro. Le mani fasciate. Non parlavano dalla partenza. Nulla di strano, Herzog era piuttosto parsimonioso nell'elargire se stesso ai figli. Eleazar nell'elargire se stesso al mondo intero. Era occorsa però tutta l'influenza, la diplomazia del vecchio Ritter per evitare una denuncia da parte dei Morris, nonostante il bel viso di Chris fosse attualmente dissestato come un morbido campo erboso dopo una partita di polo. 
Herzog infilò un'engine in bocca. La accese. Fumava lentamente, a tiri calibrati. Il volto era placido, paziente della pazienza della distanza. Degno di una statua, un idolo silente e terribile. Herzog incuteva solitamente il timore che incutono gli uomini di successo, quando padroneggiano il loro successo con tranquillità assassina, senza farsi dominare dall'entusiasmo. 
Era rilassato sul sedile. 
Parlò scrollando la cenere. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
Solitamente il giovane Ritter discorreva poco con suo padre. Quando accadeva, riguardava i cavalli, riguardava il pianoforte. Qualche libro. Non riguardava mai nessuno di loro due. I sentimenti di Eleazar per Herzog erano storicamente stati piuttosto prevedibili. Curiosità. Un'ammirazione vaga, poco chiara, quasi necessaria e mai sufficientemente intensa da sostenere una qualche forma di affetto. Trovava che facesse esattamente quello che doveva fare, come genitore, come essere umano. Prima di quei giorni non s'era mai interrogato in merito. E si stupì di quanto potesse nausearlo, opprimerlo, la coscienza lampante che in suo padre ci fosse qualcosa di sbagliato, enormemente sbagliato, di quanto potesse portarlo a mordersi le labbra e serrare le mani, pure adesso, al posto del passeggero, nonostante la mancata esperienza di qualsiasi trasporto. Si sentì preso in giro, beffato, imbrogliato. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
Eleazar tacque pochi secondi. Percepì nel dolore delle nocche ferite, nell'odore dell'alcol, misto a sangue indelebile ed interni ricchi, un nuovo se stesso. O il se stesso reale. Emerse dal sangue, dall'odore chimico di disinfettante, delle tappezzerie lussuose , altri tre elementi che avrebbero continuato a caratterizzarlo sino alla fine. 
Prese la domanda di suo padre, e nella domanda isolò una parte. 
La parte che gli serviva a varare una guerra. 
« Dovevi proprio ridurlo in quel modo davanti a tutti, Eleazar? »
« … Alla prossima lo porto dietro una siepe »
Herzog si voltò, per la prima volta dalla partenza. E per la prima volta da quando Eleazar aveva memoria (la sua memoria impressionante) una piega imprevista sulla faccia del padre spezzò la cenere dell'engine, sparpagliandola in basso.. Nient'altro. 
L'uomo ricominciò a guardare la strada. 
« Perchè ? »
Non c'era bisogno di specificare. Herzog e il proprio secondogenito erano soliti capirsi immediatamente. 
« Warden. Lily Wardwell »
« La ragazza degli Wardwell? Dei beccamorti? »
Silenzio. Eleazar appuntò la bocca a sinistra, socchiuse gli occhi. Sorrise. 
« Almeno loro li beccano da morti »