mercoledì, marzo 27

Salt

[scritto su un foglio di carta nell'infermeria della base alleata ad Oak Town]



È strano sentire dolore. 
Non ci sono più abituato. 
Il dolore più forte avvertito nella mia vita è stato il proiettile in guerra, sul fronte di Viridian, Boros. Credevo sarei annegato nel ferro, nel sangue. Desideravo perdere i sensi e smettere di contrastare lo strappo lacerante, dilatato migliaia e migliaia di volte, sbranato dal cuore in pulsazione squilibrata. 
Credevo sarei morto. Non sono morto.
Che ingenuo, verginale candore: una pallottola. Figuriamoci. 
Adesso ho un corpo tappezzato di cicatrici; le vene esauste di oppiacei: il dolore ha perso mordente, nell'esperienza, nella chimica. La Fine si è persino stancata di battermi l'indice sulla spalla quotidianamente; le saranno venuti i crampi, a furia di pungolarmi. 

Pensare di morire in un unico, rapido istante è euforico. È naturale, persino affascinante. Puoi reagire, ad una cosa del genere. Ad un colpo. La morte in faccia in una sola secchiata violenta. 
Ma puoi reagire a...questo? Alla morte in faccia elargita col contagocce, goccia a goccia? La vecchiaia, la tossicodipendenza, l'alcolismo. 

Fargate. La prigione. 

Sono stanco. Terribilmente stanco. 

Penso a domani. Penso a dopodomani. Penso al sopraggiungere delle crisi di astinenza. Penso ad una cella chiusa. Una cella chiusa, o un corridoio stretto. Non è mai stata diversa, la mia vita. Penso al futuro, come sembra plausibile adesso. 
Se non ci fosse Sterling, se non ci fosse Cecilia, avrei caricato la weyland e mi sarei sparato in bocca, mirando appena a sinistra, per stare tranquillo. Non c'è niente di triste, o drammatico in una constatazione simile. Niente di lacrimevole. È la conclusione inevitabile di un sillogismo semplice. 
La vita non ha valore di per sé - la vita ha valore se gli dai valore - se non dai un valore alla tua vita, la tua vita è inutile.
Sono pigro, per natura. Ho difficoltà con le cose utili, con quelle profittevoli, figurarsi se trattiamo di futilità. No, mi sarei sparato. Senza pensarci, magari un giorno più noioso o vuoto degli altri. Un giorno di pioggia a Capital City, simile a quello in cui tornai da Hera. 
Mio padre sarebbe sinceramente contento di seppellirmi. Mio fratello, che è uno scemo, piangerebbe un pianto che non merito. Mia madre ingoierebbe un tubo di sonniferi, una bottiglia di vino, concludendo ciò che andava concluso anni fa. 

Se non ci fosse stata Eir. 

C'è stato un periodo, una primavera, che abbiamo trascorso al Ranch. 
Ancora le bussavo alla porta come un clandestino, tra le perplessità di Roona, le torte di Mary, la compiacenza di Sam, a cui devo non so quante fucilate risparmiate nella notte stellata di Greenfield. Non avevamo responsabilità; non vedevamo tutto questo sangue lordarci la pelle fino ai gomiti. 
Io ero innocente nella mia stasi, Eir innocente nella sua illusione.
Il prezzo per trasformare la stasi in movimento, l'illusione in verità, è stato alto; altissimo; la perdita dell'innocenza (una media innocenza, quale può essere una scusabile colpevolezza veniale). Adesso siamo colpevoli in modo crudele. Siamo brutali. Siamo terroristi. Criminali efferati. 
Ogni cosa esasperata all'estremo, la posta sempre più alta. La furia che impieghiamo per raggiungerla, fino a sbranarci, sbranarsi. Stragi. Droga. Sequestri. Omicidi. 
Le persone mi suppongono insensibile, perchè non esprimo biasimo, non esprimo sofferenza. La verità... la verità è che mi manca l'ipocrisia per farlo, l'ipocrisia per concedermi il biasimo altrui e la personale sofferenza. La switch, la blast che ho creato avrà ammazzato non so quanta gente, distrutto non so quante famiglie. Senza scivolare sul melodramma: le medicine, le sigarette, il sapone, il caffè solubile, la fottuta acqua... tutto il sistema. Ogni spesa, ogni quieta assimilazione del benessere, ci toglie giorno per giorno la facoltà di piangere di fronte ai bambini dolenti del 'Verse. 
Senza appello. 
Sono soltanto infinitamente meno ipocrita. Assumendo ogni grammo di responsabilità. Ogni centimetro quadro di colpa. Lucidamente. Nella coscienza limpida di non poter fare assolutamente niente per mutare la realtà universale. 
Recuperare una femorale recisa, una voragine all'altezza delle viscere, una scheggia di granata tra le vertebre, quello sì. Posso salvare un essere umano. Uno, due, dieci, cento, migliaia. È bene? È male? Quanti di questi diventeranno ladri? Bugiardi? Quanti picchieranno la moglie? Quanti violenteranno le figlie? Quanti getteranno il proprio destino nel cesso o lo sgozzeranno sull'altare del gioco d'azzardo, del whisky economico? Quanti mostri? Quanti soldati senza un'anima? Quanti politici senza un cervello?
È bene? È male? 
Se è nell'azione pratica che emergono il male ed il bene, come possiamo parlarne se non riusciamo a prevedere le inenarrabili, infinite conseguenze d'un gesto qualsiasi? 
Non lo so. 
Sono un dottore. Tra i migliori. Preferisco valutarmi col metro della mia abilità che con quello della mia morale. Jack è un capitano. Tra i migliori. Preferisco valutarla col metro della sua abilità, che con quello della sua morale. Quanto meno, il primo, è fattualmente stabile. 

Se non ci fosse Eir. 
Emotivamente, interiormente, con lei, sono eticamente irreprensibile. Sono giusto. Sono coraggioso. Sono pronto a migliorare, pronto a cambiare. Soffro, mi dispero. Avverto la colpa, la vergogna. La giustizia, l'ingiustizia. Perchè la amo. L'amore questo può farlo. Solo l'amore, probabilmente. Soltanto amando l'umanità intera si può vantare la pretesa di essere buoni, di essere retti, si può pretendere il diritto di soffrire per le brutture della realtà. Il problema è: amare l'umanità resta appannaggio di profeti mitologici.
Come Buddha e Gesù Cristo. Alla meglio, non sono esistiti. Alla peggio, non hanno cambiato nulla neanche loro. Non esistendo, ci farebbero senz'altro una figura migliore.