mercoledì, marzo 6

When anger shows

[Corona, 1 Marzo 2514]



«Stasera andiamo dai Morris. A cena. E tu verrai»

Le dita salde svuotano le asole della giacca dal taglio classico con maestria e praticità. Con decisione. Sfila, passa alla cameriera, ringraziandola con un gesto automatico del capo, un gesto veloce ma immancabile. Sujong china la testa, la faccia appiattita in risposta. Attende, come in un rito, la deposizione della cravatta. La attende senza guardare, studiando le preziose cuciture a mano della stoffa di cui, rispettosamente, si farà presto tutrice.
Rachel è seduta su suo letto (che non è lo stesso di Herzog), a gambe incrociate, la schiena rigida, la superba torre di ricci biondi arricchita da un nastro rosso; una posizione di yogi, quasi, ma da yogi del potere, della potenza. Indossa una veste da camera nera, ricamata ad azalee purpuree e orlata d'oro. L'oro e le azalee si contendono lo spazio irrisorio del suo corpo magrissimo, infittendosi tra le cosce, inarcandosi sino a deformarsi in punta delle ginocchia sporgenti, delle clavicole ripulite di tutto fuorchè la carne. Le mura attorno, senza mobilio, sono intessute di minuscoli pixel digitalizzati, ognuno in tinta diversa, atti a riprodurre un perfetto mosaico. Al momento assemblano una danza in amaranto. Ed amaranto sono le lenzuola aggrovigliate presso le caviglie della donna, accucciate ai suoi piedi delicati, come un cane infernale.
Rachel ride, glaciale e aggressiva, tende il polso verso la coppa di vino, ingombranti bracciali di argento cozzano a esasperare il suono impietoso della sua risata.
Herzog non si scompone; la ignora. Sgancia il primo bottone della camicia di seta cobalto, dalle linee vagamente orientali. Sujong riceve dal padrone le ultime parti dell'armatura, in un rituale altamente automatizzato. Attende che l'uomo allenti i polsini, nel caso vi fossero ulteriori direttive.

«Puoi andare Sujong, grazie»

I sibili sarcastici di Rachel sbatacchiano senza risultati sulla compostezza serena di Ritter. La cameriera si defila, annichilendo la propria esistenza dietro la porta automatica. Herzog inizia ad arrotolare metodicamente le maniche.
Tiene gli occhi verde chiaro, un verde imperscrutabile, impermeabile, su sua moglie. Il volto percorso dall'età, ha una gravità composta, senza emotività. Una gravità materiale, quasi monumentale. Un sopracciglio si arcua appena, a seguito d'una perplessità più simile al fastidio che alla rabbia. O all'attesa abituale.

«Lo trovi divertente?»

Rachel continua a ridere, arriccia le labbra bianche sul bordo del vetro. Sembra lo morda. La risata si aguzza, svetta a tal punto da tramutarsi in un soffio felino.

«Mh, stavo chiedendomi soltanto chi sarà la cena, stasera»

Herzog inspira, sotto la patina d'un sorriso rarefatto, conciso. Ha sessantadue anni, ma la stabilità marmorea, la ferocia sociale temperata da un'educazione strategica, ne hanno conservato l'aspetto giovane.

«Immagino ti sia indifferente. Non mangeresti in ogni caso, o sbaglio?»

Replica, dando un'ultima aggiustata alla seta. Rachel lascia stridere le pupille, raggelate nel celeste algido, ficcate nel ghiaccio, sull'immagine di Ritter, in piedi a quattro metri da lei. Prosciuga la coppa. La butta sul materasso, in modo scontroso, irrispettoso. Un'eleganza maleducata, urtante. Altezzosa. Le guance vibrano, lo scatto d'un rettile in fuga, mentre sfodera il silenzio più ingombrante che si possa concepire tra due persone. Slitta sopra le lenzuola, si sospinge sul bordo del letto, scoprendo le gambe lunghe, inconsistenti, di fenicottero. Sotto la pelle traslucida, d'avorio pallido, corre una ragnatela di vene vistose.
In piedi, ondeggia, mentre si dirige allo specchio allungato. I tasselli digitali emanano un fioco bagliore mielato, componendo il quadro d'un banchetto antico. Rachel azzarda delle mosse con le dita ossute, cercando di afferrare ora un'ampolla di profumo, ora una forcina. È tutto drammaticamente complesso, il vino in vena e le forze che mancano. Ingoia, fissa le punte dei piedi, le unghie pallide si conficcano nei palmi.

«Perchè dai Morris non ci porti Lana Kaynes? O... no aspetta, forse le Shouye di Corona hanno iniziato a tediarti, dopo assidua frequentazione. Prova la figlia del dottor Wellington. Con benedizione ed assistenza di suo padre, mi sta con due dita alla carotide da mesi aspettando solo che cessi di respirare»

Herzog guarda la moglie, poggiarsi al piano da trucco, screziato di madreperla. Non fiata. Non subito. L'espressione non cede d'una virgola; quasi non si trattasse della donna che ha sposato, di quelle parole insultanti, di quella rabbia nervosa ed inesauribile. La rabbia squilibrata dei Cavendish, il loro furore da nobiltà impazzita dentro se stessa.
Ritter sfila un pacchetto umile di sigarette dalla tasca. Un accendino costoso, ma sobrio, come tutto quello che lo riguarda. Persino la crudeltà.

«Il dottor Wellington è uno dei migliori medici del sistema Central, e dunque, del 'Verse intero, Rachel. Per quanto l'orgoglio possa risentirne, devo comunicarti che nutro dubbi in merito alla sua spasmodica voglia di ucciderti. Se volesse, gli basterebbe lasciarti a te stessa una settimana, dopo tutto. Nessuno riesce bene a farti del male come ci riesci tu»

Pesca un filtro con le labbra, in un gesto consumato.
Sua moglie china il capo, trema un istante, prima di sospingersi diritta, in uno scatto aggressivo. L'aria attorno a lei si deforma in una perturbazione al di là della materia, l'angoscia comunicata dal paradosso insanabile del ghiaccio in fiamme. Contrae i piccoli pugni.

«Stronzo»

Herzog non reagisce. La scavalca mentalmente, accendendo l'Engine. Lei prosegue, fremente, ma contratta in una fermezza squilibrata, innaturale.

«Perchè adesso... Wellington? Perchè? Perchè invece di parlare di Wellington non... non ti esprimi sul resto, cazzo, cazzo..il mio discorso, il mio...»

«Rachel, per cortesia»

«Per cortesia?! Ti sembra che sia quel viscido di Wellington il punto della questione? Quell'inutile parassita compiacente... ti sembra che...sia questo il punto del mio fottuto discorso»

«Non capisco la ragione di questo astio nei confronti di Wellington. Sei tu, solo tu a rendergli il lavoro impossibile»

«SMETTILA, non è Wellington il...»

«Seriamente, rifiutare le cure e crogiolarsi nel vittimismo è un tuo problema, non riguarda la professionalità di George» pausa «professionalità per cui George è generosamente remunerato dal sottoscritto, oltre tutto»

Rachel ha un'apnea di alcuni secondi che le illumina gli occhi e le dilata le pupille. Suo marito aspira la prima volta, la seconda. Sono tiri lunghi, calibrati ma avidi. Un'avidità addomesticata e resa pacifica dall'abitudine. La donna si sente soffocare, sbatacchiare contro le pareti di vetro d'una gabbia stretta pochi metri e alta centinaia di chilometri. Non c'è scampo con Ritter. In nessun modo. Gioca sempre il proprio gioco, con le proprie regole. E vince.
Ride, di nuovo, una risata isterica e satura di disprezzo. E stanchezza ancestrale. Una stanchezza endemica, genetica, ereditata dalla decadenza inesorabile della sua famiglia. Espira. 

«Non fumare qui dentro. Mi infastidisce»

Herzog modella una smorfia di chiaro sarcasmo ordinato. 

«Oh, Rachel, sappiamo entrambi cosa è che ti infastidisce»

Rachel tace. Si siede, fissa il proprio riflesso nello specchio. Stranamente non replica; pare che muova un passo indietro, riconoscendo la mossa falsa appena compiuta. Riconoscendo di aver varcato un confine argomentativo pericoloso. Il marito, invece, prosegue, senza pietà: 

«Fumo Engine da sempre, non ho intenzione di cambiare per assecondare il tuo feticismo fanatico»

Rachel resta fissa in avanti. In modo terribile. Muta, in modo terribile.

«Tra l'altro è la ragione per cui le fuma tuo figlio: i primi pacchetti li sfilava dalle mie tasche a quattordici anni»

«Nostro figlio»

Herzog si volta, disinteressato, fissando le tre ampie holografie proiettate dalle cornici digitali, sulla parete retrostante, a dimensioni notevoli, murali. Sono ritratti di Rachel Cavenidsh, a diciassette anni: ballerina professionista, etoile del teatro di Berishan. Il fisico snello, esile ma sano, reattivo, avviluppato morbidamente in una tunica luminosa. L'aveva conosciuta così, trafelata sotto il palcoscenico, quando ancora si esibiva. Prima di innamorarsi di lui. Di sposarlo. Di restare incinta di Elia. E di Eleazar poco dopo. 

«A proposito di nostro figlio: sarebbe il momento di sgomberare le sue stanze. Vorrei avere un luogo spazioso in cui ospitare degnamente la famiglia di Jessicah, d'ora in avanti»

«Jessicah sta bene dove sta. Lei e quell'inutile famiglia di pezzenti arricchiti possono occupare comodamente gli appartamenti di Elia. D'altronde è sua moglie»

«Non vedo il motivo» 

Ritter oppone un razionalismo coscientemente urtante, consapevolmente fuori tono, continuando a scrutare le fotografie della consorte, una boccata di Engine dopo l'altra: 

 «impegnare duecentocinquanta metri quadri per permetterti di infilare le dita in qualche vecchio vestito, dormire su un cuscino o carezzare saltuariamente un pianoforte mi sembra... inopportuno, ecco. E malato»

«Esci di qui»

«Alle sei e un quarto, ti attendo nell'atrio. Desidererei che portassimo insieme le condoglianze a Christian Morris per la tragedia del padre»

«Esci immediatamente»

Herzog spegne la sigaretta quasi intera nel posacenere riempito di Peacock accartocciate e foglie di fragola. Sorride con calma e serenità incredibile. Insultante. 

«Bevi con moderazione, non ho intenzione di trascorrere la serata a scusarmi»

«Ho. detto. FUORI»

Ritter non accelera, non si affretta. Non depone il sorriso mentre raggiunge l'ingresso. 
Poco prima che varchi la soglia, la voce arrochita e spigolosa della moglie lo raggiunge un'ultima volta. È rotta in più punti, dall'ansia e dall'affanno. 

«Quando abbiamo cominciato ad odiarci così?»

Lui si ferma, in una mossa morbida, quasi gentile. La guarda. 
L'espressione calma, d'una calma inattaccabile, senza crepe, senza peso, investe la figura instabile e orgogliosa della donna, sciupata dall'alcol, dall'anoressia e dalla depressione. Sciupata dalla vita, dallo squilibrio, da se stessa. È bella, comunque. Lo rimarrà sempre. A monito e condanna. 

«Quando tu hai cominciato ad odiarti così, Rachel»