venerdì, marzo 8

Dig, Lazarus, dig



[Corona, tenuta Ritter, 8 marzo 2501]

Quando è di un certo umore, quell'umore, al pianoforte suona solo crescendo.
Li improvvisa, li rammenta, e cresce sui tasti, cresce dentro, in qualche modo inspiegabile. Cresce dentro, per qualche sentiero invisibile ed inestricabile, tra i rovi della coscienza. Non ha mai pianto, il pianoforte è sempre arrivato prima del pianto e le ottave prima delle lacrime. 
Batte le note con una violenza fervida, cedevole, ad occhi chiusi. La schiena sudata, il viso pulito, su cui la rabbia snudata ha la consistenza di una acerba lama di ghiaccio. Muove la testa, il ritmo lo scuote in modo languido e snervato. 
Le urla di sua madre, al di là del pavimento, quasi non si sentono più. 
Il muro del suono. 
Definizione perfetta. 
Il muro. Del suono. Il muro. 
La fortezza del suono, i bastioni del suono. 
L'enorme finestra è spalancata, le tende gonfiate dal respiro del temporale notturno. La luce crepuscolare, le sigarette schiacciate, la bottiglia svaporata di vino d'annata, le unità di memoria sparse sul letto, riempite di manuali ed articoli medici. Piove raramente, su Corona. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. Il resto che incalza, alle pendici del regno, del castello.  Se smetti di suonare sei morto, se smetti di suonare ti prenderanno. Il resto che incalza, sono i pugni incerti di Elia alla porta, la voce incerta di Elia oltre la porta. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. 
Suo fratello prova, riprova. 
La musica cresce tra le mani, sbatte fuori il resto. 
Eleazar si blocca. 
Il silenzio frana tutto assieme. 
Sua madre al di là del pavimento. Il cielo scrosciante. Elia. 
Sospira, piegato sullo sgabello. La mano affusolata aggredisce il posacenere: prende un mozzicone ancora arrossato dal fuoco, lo succhia, lo spegne. Buio. 
Si alza. I passi si sollevano lungo gli strilli di Rachel, le suole decise sulle ali dello strazio squilibrato, un vaso che si frantuma, un ringhio confuso. Apre di scatto. 
Sono le due. Sono in due. 
Elia, in pigiama grigio, la sinistra sollevata, confusa, la faccia stanchissima, affranta ed intimidita. A diciotto anni è poco più basso di Eleazar, più robusto ed allenato. Elena, con una felpa di Elia addosso, tace aggrappata ad una gamba dell'altro, gli occhi fradici, legati con lo spago grezzo dell'orgoglio infantile. Una bambina. 
Eleazar li scruta, non cambia espressione, non apre bocca. È ancora in camicia, gli stessi pantaloni neri con cui ha viaggiato, da Horyzon, sino a casa. Casa. Non cambia faccia, non apre bocca. È saldo, fermo e scostante. Sprezzante, forse. 
Gli strepiti al piano inferiore disegnano lo sfondo di questo scenario statico, statico salvo il respiro. 
Gli strilli percorrono e vibrano le pareti, gli angoli dei mobili, in verticale. 
Elia boccheggia, cede, fissa i piedi scalzi, sul marmo gelido. Non riesce a domandare; domandare cosa, poi. Cosa.

«Sa'ar...» 

La voce di Elena è un pigolio sommesso, ma volitivo. Elia trasale, le stringe la mano. Pare ricordare, illuminarsi. Torna sul fratello. 
Eleazar è ancora lì, simile ad una statua indistruttibile e priva di appigli. 
Si fissano, a lungo. 

«Spostati»

Un sibilo, scostante. Eleazar li scansa entrambi, in modo freddo ed irruento al contempo.

« El...»

Non lo sta ad ascoltare. Percorre il corridoio. Percorre le scale, l'ampia gradinata monumentale che collega le ali dell'immensa tenuta dei Ritter. Veloce. L'isteria di sua madre, a svariate stanze di distanza, lo accompagna come un inno venerando e terribile. 
Spalanca una porta. Un'altra. Mano a mano che marcia, il volto vagamente efebico, allungato, si carica di ombre spossanti, frementi. Un furore marcato a china. Ogni svolta una sottolineatura densa, ed un'altra, un'altra, un'altra. 
L'ingresso della camera è a pochi metri. Pochissimi metri. 
Eccolo. Schianta i palmi contro le ante, un impatto violento. 
Il bagliore mielato del salotto lo sommerge. 
Come un punteruolo che graffia un disco sguaiato, il suo avvento ammutolisce la scena. 
A destra Rachel, riversa sul pavimento, appesa per un braccio allo schienale del divano, schiacciata dal peso dell'alcol, della frana di ricci biondi, si cede addosso nel tentativo di sollevare corpo magro, quasi cavo. Furente, in mezzo ai cocci. Un fuoco stremato. 
A sinistra, Herzog, in piedi, impassibile, nella propria cinica compostezza. La veste da camera scura, l'espressione del giudice, del sovrano della divinità senza bontà. Un'entità che dispensa potere e testimonia se stessa nell'atto di dispensare. Volontà e vittoria. È indifferente all'ira frustrata, consumata della moglie. È indifferente alla sconfitta, alla rovina, al disastro. 
Eleazar ha diciassette anni. Guarda suo padre. Suo padre lo guarda. 
È tutta lì, la misura dell'odio che non cede alle parole. 
Che non chiede alle parole. 

«..Sa'ar...» 

La voce spezzata, bollente, di sua madre lo raggiunge. 

« Zitta » 

Le intima, in malo modo, lontano dalla pietà, lontano dal cuore, mentre si volta, si piega, le passa un braccio sotto le gambe, l'altro dietro la schiena. La solleva. Meccanico. Rituali consumati. Rachel si aggrappa in modo confuso al suo collo. 
Herzog non lo ferma. Non proferisce verbo, mentre il figlio nel mutismo solenne attraversa la soglia, portando via una donna a pezzi, inconsistente dentro i propri trentacinque anni, dentro i propri trentasei chili. 
Eleazar cammina, spedito, l'ingresso deserto s'allontana dietro di lui, le caviglie esili di Rachel oscillano nell'aria, la sua testa batte contro la spalla del figlio.
Elia ed Elena, nella medesima composizione, lo attendono a mezze scale, sul pianerottolo. Quattro occhi, due impauriti; due tristi.

«El... come...come...»

«Mamma...»

«Andate a dormire»

«Cosa...»

«Andate a dormire»

Eleazar li evita, non rallenta, li lascia indietro. Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. Rachel geme, fuori di sé. Ride. Una manciata di secondi e sono giunti ai suoi appartamenti. Eleazar scarica la madre sull'ampio divano, nessuna gentilezza. Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. 

«Sa'ar... aspetta... Sa'ar...»

La chiamata lo rincorre, ignorata, che già sta uscendo, senza voltarsi indietro. 
Traccia il percorso a ritroso in modo preciso, calibrato. Non accelera, non decelera. Ingoia, respira. Gradino dopo gradino. Angolo dopo angolo, è di nuovo in camera sua. 
C'è silenzio. Silenzio e pioggia. Azzurro notturno. 
Strofina il viso. 
Lontano dalla pietà, lontano dal cuore. Gli tremano finalmente le dita. Finalmente. Accende una sigaretta. Esce nell'aria fredda. Rabbrividisce. Sta meglio. 
Il mare è una macchia misteriosa. 







***



[Corona, Hotel Chevalier, 8 marzo 2514 - scritto e archiviato sulla memoria dell'holodeck]



Se avessi potuto esprimere la rabbia come tutti gli altri, forse non sarei partito per la guerra. Se avessi potuto esprimere l'amore, come tutti gli altri, forse non avrei studiato medicina. Se avessi potuto esprimere il dolore, come tutti gli altri, forse non sarei divenuto in morfinomane senza scopo. 
Se avessi saputo esprimere la rabbia, l'amore, il dolore come ogni essere umano, senza dover fare di ogni emozione un esperimento al massacro... Se fossi stato più semplice. Più vivo. E avessi odiato, avessi riso, avessi pianto. Forse. 

Non ero in grado. 
Non me lo potevo permettere.